Usa, Unione Europea e Cina sono di fronte ad un passaggio che le obbliga a decisioni epocali rispetto al livello di inter-connettività conosciuto durante i trent’anni della globalizzazione neo-liberista.

Fino a quando persisteva un rapporto di scambio ineguale profittevole tra le prime due e la Repubblica Popolare, il gioco ha retto; ma, risalendo progressivamente la catena del valore delle merci prodotte, la Cina è diventata un competitor mondiale a tutti gli effetti in grado di fare scarpe in alcuni settori sia agli Stati Uniti che alla UE, e quindi un antagonista tout court.

Se Pechino sta divenendo un attore di peso anche nel campo finanziario ed una potenza militare in grado di esercitare una diplomazia assertiva, lo può fare grazie ad un solido sistema economico pianificato ed allo sviluppo di settori strategici prevalentemente in mano pubblica – pensati all’interno di questo processo di pianificazione – per quello che sarà il futuro ciclo di accumulazione post-pandemico: dall’intelligenza artificiale all’automotive elettrico, dalle energie rinnovabili all’agricoltura.

Gli USA come l’UE stanno correndo ai ripari

L’amministrazione Biden, “richiederà una revisione delle catene di approvvigionamento che presentano delle criticità per ridurre la dipendenza degli Stati Uniti dalla Cina e da altri rivali per qualunque prodotto, dalle terre rare ai principi attivi dei farmaci fino ai semiconduttori”, recita l’introduzione dell’articolo che abbiamo tradotto.

Vediamo come gli USA intendono muoversi rispetto a due settori strategici, per altro interconnessi, come l’Intelligenza Artificiale e le “materie rare”.

Dopo due anni di studi, la Commissione nazionale della Sicurezza sull’Intelligenza Artificiale statunitense, suggerisce di costruire una “base domestica resiliente” per la progettazione e la costruzione dei semi-conduttori, sganciandosi progressivamente da Taiwan che potrebbe, tra l’altro, tornare ad essere parte della Cina continentale.

Nel rapporto di 756 pagine la Commissione non usa mezzi termini e parla di “momento di vulnerabilità strategica”, visto che la Cina investe in tecnologie avanzate. Questo pericolo naturalmente ha delle ripercussioni sul settore militare.

Il rapporto – citato dal Financial Times – afferma che: «La Cina è già alla pari nell’intelligenza artificiale, ed è più tecnicamente avanzata in alcune applicazioni. Nel prossimo decennio, la Cina potrebbe sorpassare gli Stati Uniti come maggiore potenza dell’Intelligenza artificiale».

Un monito esplicito inteso ad aumentare la spesa dello Stato in ricerca e formazione, considerato per esempio che gli studenti iscritti a programmi di dottorato in intelligenza artificiale sono gli stessi negli ultimi trent’anni.

Non c’è stata una progressione nella capacità di coltivare talenti, sufficienti un tempo quando il gap tra gli USA ed il mondo in questo campo sembrava incolmabile, ma ora scarsi.

Per rendere evidente a tutti che l’espressione Guerra Fredda di Nuovo Tipo non è una iperbole retorica, la Commissione suggerisce alla Casa Bianca la creazione di un “Consiglio di Competizione Tecnologica” (Technology Competitiveness Council) che richiama chiaramente il Nation Security Council creato dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Prendiamo in considerazione un altro settore, quello delle “Terre Rare”

Recentemente tre aziende nord-americane hanno cominciato a  configurare una catena di approvvigionamento per questi metalli vitali nella produzione di armi, veicoli elettrici e tecnologia avanzata.

La canadese Neo Performance Materials e la statunitense Energy Fuels hanno scoperto un modo efficiente per la produzione sicura dalle sabbie radioattive di monazite, un prodotto collaterale dell’estrazione mineraria di Zircone, Uranio e altri materiali, che verrà fornita dall’azienda chimica Chemours negli Stati Uniti.

La Cina controlla ben l’80% della catena di forniture di “materie rare”, e sta esplorando la possibilità di limitarne l’export.

Jet da caccia come gli F-35 dipendono pesantemente dalle “materie rare”, per intenderci. Un rapporto del Congresso riporta che una areo della Lockheed Martin contiene 417 kg di materiali prodotti con questa tipologia di minerali, mentre un sottomarino nucleare ne contiene più di 4 tonnellate.

È chiaro che un eventuale stretta dell’export cinese sarebbe un disastro per il complesso militar-industriale statunitense ed europeo, così come per gli altri settori di punta.

Questo per dare una idea di che tipo di partita si gioca nel processo di sganciamento – decoupling in inglese – e di ri-internalizzazione – reshoring – delle catene del valore.

Legato a questo sta il fatto che se l’economia USA non si riconfigura attorno ad alcuni  settori core, la finanza statunitense rischia di essere ancora maggiormente un castello di carta e di poter perdere in prospettiva l’attrattività a discapito di altre piazze borsistiche, come quelle cinesi o quelle europea post-brexit. Il dollaro potrebbe perdere la sua “rendita di posizione” egemonica.

Agganciare valuta e finanza ad una economia più solida e competitiva è un passo obbligato, quindi, senza dismettere la propria macchina bellica, e per riprodurre il potere delle oligarchie economico-finanziarie stesse che governano il mercato.

In tutto questo, lo stimolo economico dato dallo Stato assume un peso preponderante nella competizione internazionale, come dimostra il pacchetto da 1,9 mila miliardi di dollari passato alla Camera Bassa sabato scorso negli Usa e che dovrebbe essere approvato entro la metà marzo al Senato, senza che nelle misure previste sia stato incluso l’incremento del “salario minimo” a 15 dollari, dai poco più di 7 attuali.

Completa il quadro quello che saranno i futuri investimenti nelle infrastrutture, che potrebbero far impallidire l’ordine di grandezza di questa storica misura, considerato che The American Society of Civil Engineerings ha dato una valutazione piuttosto negativa del sistema infrastrutturale, quantificando a più di 2 mila miliardi di dollari il gap tra le spese preventivate e i reali bisogni che l’amministrazione dovrebbe affrontare nel prossimo decennio.

La pandemia ha reso evidente i vari punti di criticità della rete digitale nord-americana, e la recente crisi climatica in Texas ha reso evidenti le disfunzioni nell’erogazione di energia proprio in uno Stato che ne è uno dei maggiori produttori al mondo.

Come riporta il New York Times: «gruppi economici e molti Repubblicani hanno espresso il desiderio di lavorare con l’amministrazione per approvare un piano da mille miliardi o più in spese per le infrastrutture. Le aree dell’accordo con i progressisti includono le spese in autostrade, ponti, banda larga rurale, acqua e impianti fognari».

È chiaro che il compimento della transizione politica negli USA, con Trump che comunque è pronto a lanciare la sfida per le prossime elezioni presidenziali, ha significato un punto di svolta per il rilancio del proprio progetto egemonico.

Bombardare la Siria, non aumentare il “salario minimo”, e sottrare i vaccini agli altri Paesi dando priorità a sé sono tre aspetti del progetto statunitense. Alla fine è il tentativo dell’american way of life

Buona lettura.

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Joe Biden chiede una revisione delle catene di approvvigionamento estere critiche

Joe Biden richiederà una revisione delle catene di approvvigionamento che presentano delle criticità per ridurre la dipendenza degli Stati Uniti dalla Cina e da altri rivali per qualunque prodotto, dalle terre rare ai principi attivi dei farmaci fino ai semiconduttori.

Il presidente degli Stati Uniti ha firmato mercoledì un ordine esecutivo che richiede alle agenzie federali tenere sotto controllo per 100 giorni le catene di approvvigionamento per i semiconduttori, i prodotti farmaceutici, batterie per veicoli elettrici e minerali critici utilizzati nella produzione di prodotti come automobili e armi.

“Usciremo dal circolo vizioso di reagire alle crisi della catena di approvvigionamento man mano che si presentano e ci impegneremo a prevenire futuri problemi” ha affermato Peter Harrell, direttore senior dell’NSC per l’economia internazionale.

Il Financial Times questo mese ha riferito che Biden si è preparato a emettere l’ordine. Durante la campagna presidenziale, si è impegnato a ridurre il tipo di shock della catena di approvvigionamento emersi all’inizio della pandemia a causa della mancanza di mascherine e dispositivi di protezione per gli operatori sanitari.

Mentre firmava l’ordine esecutivo, Biden ha affermato che la carenza di equipaggiamento protettivo per gli operatori sanitari americani “non sarebbe mai dovuta accadere”.

“Non dovremmo fare affidamento su un paese straniero, soprattutto uno che non condivide i nostri interessi o i nostri valori”, ha aggiunto Biden.

L’ordine richiederà anche controlli separati di un anno per sei settori, tra cui difesa, salute pubblica, biotecnologie, IT, trasporti, energia e produzione alimentare.

Un alto funzionario ha detto che “non stava puntando il dito contro alcun paese” ma avrebbe esaminato in che casi gli Stati Uniti sono “eccessivamente dipendenti” da un rivale, compresa la Cina.

“Stiamo esaminando i rischi posti dalla dipendenza dalle nazioni concorrenti”, ha detto il funzionario, citando per esempio il caso della Cina per le terre rare.

Nel governo degli Stati Uniti, le agenzie dovranno valutare sia gli appalti federali che le catene di approvvigionamento commerciale per prodotti e settori che rientrano nella loro giurisdizione.

Un critico dell’approccio ha affermato che la nuova amministrazione dovrebbe muoversi più rapidamente per affrontare le vulnerabilità della catena di approvvigionamento basandosi su studi condotti durante l’amministrazione Trump.

La Cina si sta muovendo velocemente e il team di Biden non può permettersi il lusso di studiare da sei mesi a un anno prima di mettersi al lavoro“.

Ashley Craig, avvocato d’affari e partner di Venable, ha detto che il team di Biden si sta impegnando in un “attento atto di bilanciamento” perché vuole affrontare le vulnerabilità della catena di approvvigionamento ma “non vuole agitare i partner commerciali che stanno lentamente scongelandosi” dopo l’approccio “America first” di Donald Trump.

La mossa arriva mentre la Casa Bianca si affretta ad affrontare una carenza di semiconduttori per l’industria automobilistica dopo che diversi stabilimenti statunitensi, compresi quelli gestiti da Ford e General Motors, sono stati costretti a interrompere temporaneamente la produzione.

Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, e Brian Deese, capo del Consiglio economico nazionale della Casa Bianca, hanno lavorato con l’industria automobilistica e gli alleati degli Stati Uniti per cercare di identificare i colli di bottiglia nella catena di approvvigionamento.

Ci stiamo impegnando attivamente con i produttori per assicurarci che l’industria automobilistica abbia tutti i chip di cui ha bisogno“, ha detto il funzionario. “Ci siamo anche impegnati con paesi stranieri e società straniere al fine di incoraggiare una maggiore produzione in tutto il mondo“.

Ma il funzionario ha aggiunto che non esiste una “bacchetta magica per risolvere i problemi a breve termine“, il che ha sottolineato la necessità di rivedere le catene di approvvigionamento.

L’industria dei semiconduttori statunitense ha utilizzato la carenza di chip per fare pressioni per ottenere finanziamenti governativi per la produzione interna di essi, che a suo avviso è fondamentale per garantire le catene di approvvigionamento e mantenere un vantaggio sulla Cina.

traduzione a cura di C.D.

https://contropiano.org/news/internazionale-news/2021/03/03/la-sfida-economica-degli-usa-nel-mondo-multipolare-0136847

Draghi ha finalmente parlato, in Senato, per chiedere la fiducia al nuovo governo. E tutti attendevano naturalmente il suo discorso.

Dopo aver sfrondato la retorica catto-democristiana – si sente a grande distanza il peso ideologico di Comunione e Liberazione, influente anche come numero di ministri “formati” nelle sue fila – alcune cose emergono con chiarezza, mentre molte restano nascoste sotto un velo di genericità che non dipende solo dall’occasione (i programmi concreti si discutono quando vengono presentate leggi o decreti).

Rientra in questo ambito tutta la parte iniziale, dedicata all’”unità”, alla “responsabilità nazionale”, alla “politica che non ha fallito”, ecc.

Partiamo dalle certezze. Questo è un governo che “nasce nel solco dell’appartenenza del nostro Paese, come socio fondatore, all’Unione europea, e come protagonista dell’Alleanza Atlantica, nel solco delle grandi democrazie occidentali, a difesa dei loro irrinunciabili principi e valori. Sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro, significa condividere la prospettiva di un’Unione Europea sempre più integrata che approderà a un bilancio pubblico comune capace di sostenere i Paesi nei periodi di recessione. Gli Stati nazionali rimangono il riferimento dei nostri cittadini, ma nelle aree definite dalla loro debolezza cedono sovranità nazionale per acquistare sovranità condivisa. Anzi, nell’appartenenza convinta al destino dell’Europa siamo ancora più italiani, ancora più vicini ai nostri territori di origine o residenza”.

Una scelta di campo piena e integrale, insomma, che non ammette “distonie” sui fondamenti di questa appartenenza. Ossia a tutti i trattati che legano (e subordinano) l’Italia alla Nato e all’Unione Europea. Una “cessione di sovranità” ammessa esplicitamente alla faccia di quanti – dentro e fuori il Parlamento – ancora esitano a riconoscerla come tale.

I media mainstream sottolineeranno naturalmente come questo passaggio – e soprattutto “l’irreversibilità dell’euro” – sia una stoccata a Salvini e alla Lega. Ma, anche in questo caso, può essere sorpreso solo chi non ha ancora capito quanto l’”euroscetticismo” fascioleghista fosse soltanto un atteggiamento elettoralistico, per captare il malcontento popolare verso quell’”Europa” che “ci chiede sacrifici e riforme”. Il vero “blocco sociale” leghista, infatti, ovvero le piccole e medie imprese del Nord, di tutto ha bisogno tranne che di allontanarsi dalle filiere produttivi di cui è sub-committente (Germania e Francia, nell’ordine).

Una seconda certezza è che molte delle “riforme” che verranno messe in cantiere saranno giocate sulla narrazione tossica della “guerra generazionale”, opponendo futuro dei giovani e diritti/redditi degli anziani. L’accenno fatto, subito dopo aver ricordato che le “risorse sono sempre scarse”, non lascia molti dubbi: “Nella speranza che i giovani italiani che prenderanno il nostro posto, anche qui in questa aula, ci ringrazino per il nostro lavoro e non abbiano di che rimproverarci per il nostro egoismo.”

Su pandemia e vaccinazioni, dobbiamo dire, non si sono sentite idee particolarmente brillanti. Ci si muove a tentoni, sapendo che le dosi di vaccino dipendono dalle concessioni delle multinazionali con cui la UE ha firmato contratti secretati. E che ogni nuovo lockdown sarà un colpo per l’economia.

Certo c’è l’assicurazione verbale a voler “accelerare”, facendo di qualsiasi luogo adatto un possibile centro di vaccinazione. Ma nulla di più.

Il discorso sulla sanità, del resto, è stato altamente contraddittorio. Da un lato la dichiarata volontà di potenziare la medicina territoriale (massacrata dai tagli di spesa e dalle privatizzazioni/convenzioni), dall’altra lo sviluppo della telemedicina (quella con cui il leghista Giorgetti proponeva di sostituire i medici di base, che costituiscono poi la rete della “medicina territoriale”).

Sui temi economici, e sulle “riforme”, solo pochi accenni, ma tutti dentro il quadro di un “neoliberismo compassionevole”.

Per esempio: si riconosce che le disuguaglianze sono aumentate a dismisura, e che bisognerà aiutare chi ha perso il lavoro o lo perderà nei prossimi mesi (le “imprese zombie”, che andavano male già prima della pandemia, non verranno salvate e dovranno licenziare o chiudere). Ma la chiave di volta proposta è una “riforma degli ammortizzatori sociali” nel solco delle indicazioni europee e delle richieste di Confindustria.

Ossia: non sussidi tipo la cassa integrazione o la Naspi, ma “politiche attive”, fatte di formazione e obbligo ad accettare qualsiasi lavoro con qualsiasi salario, nello stile delle leggi Hartz IV in Germania.

Particolarmente indicativo l’accenno fatto allo “squilibrio” esistente oggi nelle “reti di protezione sociale”, che “non proteggono a sufficienza i cittadini con impieghi a tempo determinato e i lavoratori autonomi. SI avverte il ronzio in sottofondo di un altro luogo comune inventato per incentivare la guerra tra poveri, con l’immagine dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato “protetti” dagli ammortizzatori e gli altri senza rete. Una condizione in parte vera, ma anche voluta scientificamente da tutti i governi neoliberisti degli ultimi 30 anni, e a cui in genere si propone di rimediare togliendo protezioni a chi oggi le ha senza peraltro darne alcuna a chi ne è privo. Lo abbiamo visto già con le leggi sul mercato del lavoro, dove è stato cancellato di fatto lo Statuto dei lavoratori senza che i precari abbiano ricevuto la benché minima attenuazione della loro condizione schiavistica.

Anche il grande spazio dato ai temi ambientali, e al cambiamento del modello produttivo, all’innovazione tecnologica, non esce dalla solita divisione del lavoro: allo Stato il compito di fare investimenti mirati in “digitalizzazione, agricoltura, salute, energia, aerospazio, cloud computing, scuole ed educazione, protezione dei territori, biodiversità, riscaldamento globale ed effetto serra”, mentre le imprese private devono essere invitate “a partecipare alla realizzazione degli investimenti pubblici apportando più che finanza, competenza, efficienza e innovazione per accelerare la realizzazione dei progetti nel rispetto dei costi previsti.

Tradotto: il vituperato “pubblico” mette i soldi, le imprese li usano; magari in modo meno arbitrario che in passato. Ma lo schema non cambia.

Tra le “riforme” molti avranno tirato un sospiro di sollievo non sentendo nominare le pensioni. Ma è stata la pandemia a distruggere l’argomento principale in mano a tutte le Fornero di questo paese, e Draghi si è limitato a riconoscerlo: “L’aspettativa di vita, a causa della pandemia, è diminuita: fino a 4 – 5 anni nelle zone di maggior contagio; un anno e mezzo – due in meno per tutta la popolazione italiana. Un calo simile non si registrava in Italia dai tempi delle due guerre mondiali”.

E se si vive di meno, è difficile pretendere che si debba lavorare più a lungo…

Tra quelle nominate, invece, ci sono due “riforme” che “vuole l’Europa”, arrivando a dettare finanche le linee guida che dovranno essere seguite.

Nel campo della giustizia le azioni da svolgere sono principalmente quelle che si collocano all’interno del contesto e delle aspettative dell’Unione europea. Nelle Country Specific Recommendations indirizzate al nostro Paese negli anni 2019 e 2020, la Commissione, pur dando atto dei progressi compiuti negli ultimi anni, ci esorta: ad aumentare l’efficienza del sistema giudiziario civile, attuando e favorendo l’applicazione dei decreti di riforma in materia di insolvenza, garantendo un funzionamento più efficiente dei tribunali, favorendo lo smaltimento dell’arretrato e una migliore gestione dei carichi di lavoro, adottando norme procedurali più semplici, coprendo i posti vacanti del personale amministrativo, riducendo le differenze che sussistono nella gestione dei casi da tribunale a tribunale e infine favorendo la repressione della corruzione.”

La seconda, certamente più problematica e foriera di grandi tagli occupazionali, riguarda la pubblica amministrazione. “La riforma dovrà muoversi su due direttive: investimenti in connettività con anche la realizzazione di piattaforme efficienti e di facile utilizzo da parte dei cittadini; aggiornamento continuo delle competenze dei dipendenti pubblici, anche selezionando nelle assunzioni le migliori competenze e attitudini in modo rapido, efficiente e sicuro, senza costringere a lunghissime attese decine di migliaia di candidati.

La digitalizzazione, così come è avvenuto in buona parte del settore privato, comporterà un’”asciugatura” drastica nelle dimensioni del personale. Tranne che, ovviamente, per quanto riguarda il lato militar-poliziesco (considerevole il fatto che le parole spese per il Sud riguardino quasi soltanto il “contrasto della criminalità organizzata”, che è certamente un enorme problema, ma non proprio l’unico del Mezzogiorno).

Infine il tema bollente della riforma fiscale, su cui è stato particolarmente abile nello sfuggire a qualsiasi indicazione esplicita.

Viene invocata la necessità di un intervento complessivo [che] rende anche più difficile che specifici gruppi di pressione riescano a spingere il governo ad adottare misure scritte per avvantaggiarli. Un compito da cui “i politici” (è sottinteso) farebbero bene a star lontani, perché “le esperienze di altri paesi insegnano che le riforme della tassazione dovrebbero essere affidate a esperti, che conoscono bene cosa può accadere se si cambia un’imposta”.

Discorso criptico, che si chiarisce però con l’esempio della Danimarca, che ha varato di recente una sorta di “flat tax ammorbidita”, che mette insieme tagli delle tasse per i redditi alti e aumento della detrazioni per quelli da lavoro. Rispettando insomma – ma solo nella forma – la “progressività” dell’imposizione tributaria, senza però alcun effetto redistributivo verso il basso. Anzi, fortemente a favore dei più ricchi.

Del resto è Draghi stesso ad ammette che “Una riforma fiscale segna in ogni Paese un passaggio decisivo. Indica priorità, dà certezze, offre opportunità, è l’architrave della politica di bilancio”. Nel nostro linguaggio diremmo che ogni riforma fiscale ha un “segno di classe” e quella indicata dalla Danimarca è un segno semplicemente odioso…

Non a caso, è anche lui obbligato a chiudere l’argomento, come tutti i pinocchio che l’hanno preceduto a Palazzo Chigi, promettendo un più fortecontrasto all’evasione fiscale. Un campo dove, con le sue competenze, potrebbe effettivamente fare sfracelli, se solo volesse…

In definitiva, un discorso da cui non esce la sostanza del disegno di ristrutturazione del Paese. Ne viene evocata la necessità e l’urgenza, ma non i passaggi concreti.

Per quelli, senza dubbio, dovremo attendere quel che matura nei ministeri-chiave – quelli economici – affidati ai “tecnici” di sua stretta fiducia.

Se in una situazione di “normalità” liberaldemocratica le elezioni rappresentano spesso il feticcio al quale si riduce la partecipazione politica, in Catalunya sono un momento rilevante nello scontro che oppone il movimento per i’indipendenza e la repubblica al cosiddetto regime del ’78 (le cui radici affondano nel franchismo) ed è in questa cornice che conviene situarle.

Le elezioni del 14 febbraio si sono svolte infatti in un contesto eccezionale, segnato dalla repressione e dall’intervento tutt’altro che neutrale dello stato: sono stati i tribunali spagnoli, incuranti del consenso raggiunto tra tutti i partiti sull’opportunità del rinvio della consulta al maggio, ad assecondare il PSC, unica formazione ansiosa di votare prima che si consumasse l’effetto Illa, ossia la popolarità dell’ex-ministro della sanità spagnolo Salvador Illa (candidato alla Generalitat) che avrebbe dovuto assicurare il trionfo del socialisti.

Il Tribunale Superiore di Giustizia di Catalunya ha così imposto il 14 febbraio come il terreno di gioco più favorevole all’unionismo, senza tenere in considerazione la situazione di alto rischio sanitario.

L’intervento degli apparati dello stato si è palesato anche nella tv pubblica catalana, ai cui giornalisti è stato vietato di usare le espressioni “prigionieri politici” e “esiliati” durante la campagna elettorale. Contemporaneamente la giunta elettorale ha vietato anche qualsiasi manifestazione di solidarietà con i detenuti politici indipendentisti.

Queste accortezze però non sono state sufficienti ad ottenere i risultati sperati: il PSC è il partito più votato con il 23,04% dei voti, ma Esquerra Republicana de Catalunya e Junts per Catalunya seguono a una distanza minima, portando a casa rispettivamente il 21,3% e il 20,04%. Non solo, socialisti e repubblicani raggiungono entrambi la quota di 33 seggi, mentre Junts gli segue a quota 32.

La riproposizione del centrosinistra statale è del tutto esclusa dai numeri: PSC e Catalunya en Comú (8 seggi) arrivano appena a quota 41, lontani dai 68 seggi che marcano la maggioranza. Una soglia ampiamente superata dallo schieramento indipendentista grazie anche ai 9 seggi della CUP e che assicura ai sostenitori della repubblica una maggioranza di 74 seggi, ancora più ampia di quella che portò al referendum del primo ottobre 2017.

Per la prima volta i partiti indipendentisti superano il 50% dei voti, attestandosi al 51,14%. Un dato assai significativo ma non sorprendente: ci sono ben 800 comuni (su un totale di 933) nei quali gli indipendentisti superano il 50% ormai da tre elezioni consecutive (come nel caso di Girona, Olot, Banyoles e in numerosi centri minori).

Il voto indipendentista continua a crescere anche fuori dai propri feudi situati soprattutto nell’interno: la geografia del voto ci consegna la suggestiva immagine delle campagne che accerchiano la metropoli e il litorale. Il voto unionista si concentra infatti a Barcellona e nella cintura metropolitana, nel 2017 egemonizzato da Ciutadans, oggi rappresentato dal PSC, anche se ERC si affaccia anche qui a contendere con sempre maggior efficacia il primato ai fautori dell’unità dello stato.

Lo straordinario risultato del composito schieramento indipendentista rende impossibile qualsiasi ipotesi di governo unionista e complica molto l’ipotesi di tripartito delle sinistre (PSC, Catalunya en Comú e ERC) auspicata dal partito di Ada Colau. L’accento da tempo posto dai repubblicani sulla tavola delle trattative, e sulla necessità del dialogo con lo stato, avevano fatto presagire il via libera di ERC al governo delle sinistre statali (magari in cambio di un indulto per i responsabili del primo ottobre), ma la schiacciante vittoria elettorale rende assai difficile questo scenario.

La giornata elettorale si è svolta di fatto anche fuori dai seggi: nella notte precedente al voto sono stati incendiati due ripetitori della televisione spagnola, uno a Rocacorba (Girona) e uno a Cubells (Lleida), un sabotaggio finora non rivendicato che ha oscurato durante le operazioni di voto la tv dello stato per gran parte della giornata e che ha ricordato a tutti la presenza di un settore sociale disposto al conflitto, al di la delle scadenze elettorali.

L’episodio ricorda le decine di sabotaggi portati a termine nel corso degli anni ’80 dal movimento dell’epoca (minoritario ma egemonizzato da un’esquerra independentista assai radicale) e diretti soprattutto contro le strutture del monopolio statale dell’energia, le caserme della Guardia Civil e altre amministrazioni dello stato.

D’altro canto le piazze sono state animate durante tutta la campagna elettorale da numerose contestazioni, organizzate dai Comitati di Difesa della Repubblica e dalle piattaforme antifasciste cittadine, contro i comizi di Vox (come a Vic, a Girona, a Tarragona…) che hanno reso difficile il lavoro dei candidati della pretesa nuova destra radicale. Fino all’ultima contestazione subita davanti al seggio dal candidato di Vox alla presidenza della Generalitat, quando un gruppo di femministe di Femen l’ha accolto a seno nudo mostrando cartelli sui quali si leggeva “non è patriottismo, è fascismo” e gridando slogans contro il gruppo della destra nostalgica e xenofoba.

Nonostante il fermo rifiuto espresso da larghi strati della popolazione, Vox entra nella camera catalana con forza, ottenendo un risultato che non sorprende (11 deputati). Dopo una lunga stagione nel corso della quale i tradizionali partiti unionisti (comprese le sinistre dello stato) hanno alimentato l’anticatalanismo e soffiato sul fuoco del nazionalismo spagnolo, una parte dell’elettorato ha preferito l’originale alle copie e ha premiato Vox, soprattutto a scapito di Ciutadans (passato dai 36 seggi che gli avevano conferito la palma del primo partito nel 2017 ai soli 6 attuali) e del PP (sceso da 4 a 3 seggi).

Così il partito che sembra in grado di formare il nuovo governo è ERC. I repubblicani vogliono seguire la proposta che definiscono via ampia, sommando ai partiti indipendentisti anche Catalunya en Comú e arrivando in questo modo a una maggioranza di 82 deputati. Un obbiettivo difficile che vorrebbe coniugare il dialogo con lo stato da un lato con la radicalità della CUP dall’altro.

Dal canto loro, gli indipendentisti e anticapitalisti hanno già chiarito le condizioni minime per passare dall’opposizione al sostegno al nuovo governo: un referendum d’autodeterminazione vincolante, la fine della repressione (compresa quella derivata dalle denuncie della Generalitat), un piano di riscatto sociale per far fronte alle conseguenze della pandemia e un programma di transizione ecologica.

https://contropiano.org/news/internazionale-news/2021/02/18/verso-la-repubblica-catalana-0136466

Cinquantacinque feriti e diciannove fermi a Madrid durante la manifestazione, contro l’arresto del rapper Pablo Hasel. Centinaia di persone si sono radunate a Puerta del Sol in una piazza blindata dalle forze dell’ordine. Manifestazioni di protesta sono state segnalate anche in Catalogna

La polizia ha caricato ieri pomeriggio le persone concentrate a Puerta del Sol per la libertà di Pablo Hasél. Il rapper arrestato martedì a Lleida per scontare la pena di 9 mesi inflitta dall’Alta Corte Nazionale per il “crimine” di insulti e calunnie contro la Corona spagnola.

La protesta, convocata sui social e senza l’autorizzazione delle autorità, è iniziata intorno alle 19:00 in modo pacifico e con un clima di festa. Erano circa le 20:00 quando gli agenti di polizia hanno caricato più volte i gruppi di manifestanti che avevano tentato di percorrere via Carretas in direzione del Congresso dei Deputati. Alcuni manifestanti hanno cercato di avanzare con le mani alzate per non subire le cariche, mentre il fumo dei lacrimogeni si diffondeva per tutta la piazza. Nel frattempo, in Calle del Correo, si sono uditi altri spari della Polizia, che ha continuato a caricare i manifestanti che avevano incendiato alcuni cassonetti nella zona. In Calle Mayor è iniziata una vera e propria resistenza dei manifestanti che hanno formato barricate con i cassonetti in fiamme per impedire l’avanzata degli agenti e si sono spostati in strade limitrofe come Calle Mayor o Preciados.

Si registra un totale di 19 persone arrestate e almeno 55 sono rimaste ferite, tra cui 35 agenti della polizia nazionale e 20 manifestanti o passanti che sono stati implicati negli incidenti. Dei 19 detenuti, sei sono minorenni (tra i 16 e i 17 anni) e quattro sono donne. Alla manifestazione si sono sentiti slogan come “Anche io sono Pablo Hasél!”, “Il re deve morire affinché la gente viva!” o “Pablo Hasél Libertad! Fuori con la polizia franchista!” Sono stati anche esposti striscioni che chiedevano il rilascio del rapper. La manifestazione si è conclusa intorno alle 22:00.

Altre manifestazioni si sono svolte a partire da martedì in diverse città della Catalogna. I Mossos d’Esquadra, la polizia autonomica catalana, hanno ferito alcuni manifestanti con proiettili di plastica e una giovane donna ha perso un occhio dopo essere stata colpita.

Al momento non si registrano comunicati di condanna dell’Unione Europea o dei vari governi verso le violenze contro i manifestanti e per la libertà d’espressione in Spagna. Pare che questa sensibilità democratica sia concentrata solo contro Russia, Bielorussia, Venezuela, Cina. 

https://contropiano.org/news/internazionale-news/2021/02/18/spagna-represse-le-manifestazioni-per-la-liberta-di-pablo-hasel-0136476

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