Giù le mani dalla siria No alla guerra contro la Siria e contro il popolo siriano
Written by nuestra america
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Il movimento contro la guerra e la situazione in Siria. Un documento collettivo mette i piedi nel piatto sulla funzione di una coerente opposizione alla guerra, anche quella “umanitaria”.
La grave situazione in Siria, pone i movimenti che in questi anni si sono battuti contro la guerra di fronte a nuovi e vecchi problemi che producono lacerazioni, immobilismo e un vuoto di iniziativa.
Siamo attivi in reti, realtà politiche e movimenti che in questi anni – ed anche in questi mesi – non hanno esitato a schierarsi contro l’escalation della guerra umanitaria con cui l’alleanza tra potenze della Nato e petromonarchie del Golfo, sta cercando di ridisegnare la mappa del Medio Oriente.
a) Interessi convergenti e prospettive divergenti al momento convivono dentro questa alleanza tra le maggiori potenze della Nato e le potenze che governano “l’islam politico”. E’ difficile non vedere il nesso tra l’invasione/disgregazione della Libia, l’escalation in Siria, la repressione saudita in Barhein e Yemen e i tentativi di normalizzazione delle rivolte arabe lì dove sono state più impetuose (Tunisia, Egitto). La dottrina del Dipartimento di Stato Usa “Evolution but not Revolution” aveva decretato quello che abbiamo sotto gli occhi come l'unico sbocco consentito della Primavera Araba. Da queste gravi responsabilità è impossibile tenere fuori le potenze dell'Unione Europea, in particolare Francia, Gran Bretagna e Italia, che hanno prima condiviso l’aggressione alla Libia, hanno mantenuto intatto il loro sostegno politico e militare ad Israele ed oggi condividono la stessa politica di destabilizzazione per la Siria.
b) I movimenti che si oppongono alla guerra, in questi ultimi anni hanno dovuto fare i conti con diverse difficoltà. La prima è stata la rimozione della guerra dall’agenda politica dei movimenti e delle forze della sinistra o, peggio ancora, una complice inerzia verso le aggressioni militari come quella in Libia. Dalla “operazione di polizia internazionale in Iraq” del 1991 alla “guerra umanitaria in Jugoslavia” nel 1999 per finire con le “guerre per la democrazia” del XXI Secolo, le guerre asimmetriche scatenate dai primi anni Novanta in poi dalle coalizioni di grandi potenze contro paesi più deboli (Iraq, Somalia, Afghanistan, Jugoslavia, Costa d'Avorio, Libia), hanno sempre cercato una legittimazione morale che poco a poco sembra essere penetrata anche nella elaborazione e nel posizionamento di settori dei movimenti pacifisti e contro la guerra. I sostenitori della “guerra umanitaria” statunitensi ma non solo, stanno cercando di definire una cornice legale agli interventi militari attraverso la dottrina del “Rights to Protect” (R2P). Gli obiettivi di queste guerre sono stati sempre presentati come la inevitabile rimozione di capi di stato o di governi relativamente isolati o addirittura resi invisi alla cosiddetta “comunità internazionale” sia per loro responsabilità che per le martellanti campagne di demonizzazione mediatiche e diplomatiche.
c) Saddam Hussein, Aydid, Milosevic, il mullah Omar, Gbagbo, Gheddafi e adesso Assad, sono stati al centro di una vasta operazione di cambiamento di regime che è passata attraverso gli embarghi, i bombardamenti e le invasioni militari da parte delle maggiori potenze della Nato e i loro alleati regionali, operazioni su vasta scala che hanno disgregato paesi immensamente più deboli perseguendo la “stabilità” degli interessi occidentali attraverso la destabilizzazione violenta di governi o regimi dissonanti. A prescindere dalle maggiori o minori responsabilità di questi leader verso il benessere e la democrazia dei loro popoli, le maggiori potenze hanno agito sistematicamente per la loro rimozione violenta attraverso aggressioni militari e imposizione al potere di nuovi gruppi dirigenti subordinati agli interessi occidentali.
d) Seppure negli anni precedenti la consapevolezza che la divisione tra “buoni e cattivi” non sia mai stata una categoria limpida e definita – anzi è servita a occultare le vere motivazioni delle guerre - nel nostro paese ci sono stati movimenti di protesta che si sono opposti alla guerra prescindendo dai soggetti in campo e che si sono posizionati sulla base di una priorità: quel no alla guerra senza se e senza ma che in alcuni momenti ha saputo essere elemento di identità e mobilitazione straordinario. Sembra però che la coerenza con questa impostazione si stia sempre più affievolendo e in alcuni casi ribaltando. La macchina del consenso alle guerre ha visto infatti crescere gli elementi di trasversalità. Prima erano solo personalità della destra a sostenere gli interventi militari, adesso vi si arruolano anche uomini e donne della sinistra. Questa difficoltà era già emersa nel caso dell'aggressione militare alla Libia ed oggi si rivela ancora più lacerante rispetto alla possibile escalation in Siria.
e) Le iniziative contro la guerra che ci sono state in questi mesi, seppur minoritarie, sono riuscite a ostacolare l’arruolamento attivo di alcuni settori pacifisti nella logica della guerra umanitaria, hanno creato una polarizzazione che in qualche modo ha esercitato un punto di tenuta di fronte alla capito lazione politica, culturale del pacifismo e dell'internazionalismo. Ma la realtà sta incalzando tutte e tutti, ragione per cui è necessario affrontare una discussione nel merito dei problemi che la crisi in Siria ci porrà davanti nei prossimi mesi.
Nel merito della situazione in Siria
In tutte le guerre asimmetriche – che di fatto sono aggressioni unilaterali - le potenze occidentali hanno sempre lavorato per acutizzare le contraddizioni e i contrasti esistenti nei paesi aggrediti. La questione semmai è che l'ingerenza esterna da parte delle potenze della Nato e dei loro alleati ha agito sistematicamente per una deflagrazione violenta dei contrasti interni che consentisse poi l'intervento militare e servisse a legittimare la “guerra umanitaria”. La guerra mediatica ha bisogno sempre di sangue, orrori, cadaveri, stragi da gettare nella mischia e negli occhi dell'opinione pubblica. Di solito le notizie su questo vengono martellate nei primi venti giorni. Smentirle o dimostrarne la falsità o la maggiore o minore manipolazione, diventa poi difficile se non impossibile. Ciò significa che tutto viene inventato o manipolato? No. Ma un conflitto interno senza ingerenze esterne può trovare una soluzione negoziata, se le ingerenze esterne lavorano sistematicamente per impedirla si arriva sempre ai massacri e poi all'intervento militare “stabilizzatore”. Chiediamoci perchè tutti i piani e gli accordi di pace in questi venti anni sono stati fallire (ultimo in ordine di tempo quello di Kofi Annan sulla Siria). Il loro fallimento è funzionale al fatto che l'unico negoziato accettabile per le potenze occidentali è solo quello che prevede la resa o l'uscita di scena – anche violenta – della componente dissonante. Questo è quanto accaduto ed è facilmente verificabile da tutti.
Le soluzioni avanzate dalle sedi della concertazione internazionale (Consiglio di Sicurezza dell’Onu, organizzazioni regionali come Unione Africana, Lega Araba e Alba), non state capaci di opporsi alle politiche di “cambiamento di regimi” decise dagli Usa o dalla Ue. I leader dei regimi o dei governi rimossi, hanno cercato in più occasioni di arrivare a compromessi con gli Usa o la Nato. Per un verso è stata la loro perdizione, per un altro era una strada sbarrata già dall'inizio. Più cercavano un compromesso e maggiori diventavano le sanzioni adottate negli embarghi. Più si concretizzavano le condizioni per una ricomposizione dei contrasti interni e più esplodevano autobombe o omicidi mirati che riaprivano il conflitto. Se l'unica soluzione proposta diventa il suicidio politico o materiale di un leader o lo sgretolamento degli Stati, qualsiasi negoziato diventa irrilevante.
Dalla storia della Siria non sono rimovibili le modalità autoritarie con cui in varie tappe è stata affrontata la domanda di cambiamento di una parte della popolazione siriana. Non è possibile ritenere che la leadership siriana sia l’unica a aver gestito in modo autoritario le contraddizioni e le aspettative nel mondo arabo. Questa caratteristica è comune a tutti i paesi del Medio Oriente ed è una conseguenza dell'imposizione dello Stato di Israele nella regione e un retaggio del colonialismo. Ciò non giustifica la leadership siriana ma ci indica anche chiaramente come la sua sostituzione non corrisponderebbe affatto ad un avanzamento democratico o rivoluzionario per il popolo siriano. E’ sufficiente guardare quale tipo di leadership si è impossessata del potere una volta cacciati Mubarak in Egitto, Ben Alì in Tunisia, Gheddafi in Libia o chi sta imponendo il tallone di ferro su Barhein, Yemen, Oman. Sono paesi in cui c’è gente che ha lottato seriamente per maggiore democrazia e diritti sociali più avanzati, ma chi ne sta gestendo le aspettative sono le potenze della Nato, le petromonarchie del Golfo e le componenti più reazionarie dell’islam politico. Le componenti progressiste della Primavera Araba sono state – al momento – isolate e sconfitte da questa alleanza tra potenze occidentali e le varie correnti dell’islam politico.
Dentro la crisi in corso in Siria, la leadership di Bashar El Assad ha conosciuto due fasi: una prima in cui ha prevalso la consuetudine autoritaria, una seconda in cui è cresciuto il peso politico delle forze che spingono verso la democratizzazione. I risultati delle ultime elezioni legislative non sono irrilevanti: ha votato il 59% della popolazione nonostante la guerra civile in corso in diverse parti del paese (in Francia, in condizioni completamente diverse, alle ultime elezioni ha votato il 53%, in Grecia nelle elezioni più importanti degli ultimi decenni ha votato il 62%); per la prima volta si è rotto il monopolio politico del partito di governo, il Baath, e nuove forze sono entrate in Parlamento indicando questa rottura come obiettivo pubblico e dichiarato, si è creato cioè l'embrione di uno spazio politico reale per un processo di democratizzazione del paese; le forze che si oppongono alla leadership di Assad vedono prevalere le componenti armate e settarie, un dato che si evidenzia nei massacri e attentati che vengono acriticamente e sistematicamente addossati alle truppe siriane mentre più fonti rivelano che così non è. Le forze di opposizione con una visione progressista sono ridotte a ben poca cosa e non potranno che essere stritolate dall’escalation in corso; infine, ma non per importanza, l’ingerenza esterna è quella che sta facendo la differenza. Non è più un mistero per nessuno che le forze principali dell’opposizione ad Assad siano sostenute, armate e finanziate dall’alleanza tra le potenze della Nato (Turchia inclusa) e i petromonarchi di Arabia Saudita e Qatar. E’ un’alleanza già sperimentata in passato sia in Afghanistan che nei Balcani e nel Caucaso, un’alleanza che si è rotta alla fine degli anni Novanta e poi ricomposta dopo il discorso di Obama al Cairo che annunciava e auspicava gli sconvolgimenti nel mondo arabo. Queste forze e l’alleanza internazionale che li sostiene puntano apertamente ad una guerra civile permanente e diffusa per destabilizzare la Siria. I corridoi umanitari a ridosso del confine con Turchia e Libano e la No fly zone, saranno il primo passo per dotare di retrovie sicure i miliziani dell’Esercito Libero Siriano, spezzare i collegamenti tra la Siria e i suoi alleati in Libano (Hezbollah soprattutto), destabilizzare nuovamente il Libano e rompere il Fronte della Resistenza anti-israeliana. Se il logoramento e la destabilizzazione tramite la guerra civile permanente non dovesse dare i risultati desiderati, è prevedibile un aumento delle pressioni sulla Russia per arrivare ad un intervento militare diretto delle potenze riunite nella coalizione ad hoc dei “Friends of Syria” guidata dagli Usa ma con molti volonterosi partecipanti come la Francia di Hollande o l’Italia di Monti e del ministro Terzi.
In questi anni, nelle mobilitazioni in Italia contro la guerra o per la Palestina, abbiamo registrato ripetuti tentativi di gruppi e personaggi della vecchia e nuova destra di aderire e partecipare alle nostre manifestazioni. Un tentativo agevolato dall’abbassamento di molte difese immunitarie nella sinistra e nei movimenti sul piano dell’antifascismo ma anche dalla voragine politica lasciata aperta dall’arruolamento di molta parte della sinistra dentro la logica eurocentrista, dalla subalternità all’atlantismo e dalla complicità – o al massimo dall’equidistanza – tra diritti dei palestinesi e la politica di Israele. Se la sinistra e una parte dei movimenti hanno liberato le piazze dalla mobilitazione contro la guerra, dal sostegno alla resistenza palestinese e araba ed hanno smarrito per strada la loro identità, è diventato molto più facile l’affermazione di alcuni gruppi marginali della destra e della loro chiave di lettura esclusivamente geopolitica ed eurasiatica della crisi, dei conflitti e delle relazioni sociali intesi come lotta tra potenze. I gruppi della destra veicolano un antiamericanismo erede della sconfitta subita dal nazifascismo nella seconda guerra mondiale e completamente avulso da ogni capacità di lettura dell’egemonia imperialista sia nel suo versante statunitense che in quello europeo. Una chiave di lettura sciovinista e reazionaria che nulla a che vedere con una identità coerentemente anticapitalista ed internazionalista. Non solo. La paura di gran parte della sinistra di declinare la solidarietà con i palestinesi come antisionista e anticolonialista, ha regalato a questa destra e alla sua declinazione razzista e antiebraica uno spazio di iniziativa, cultura e solidarietà che storicamente ha sempre appartenuto alle forze progressiste. Se si cede su un punto decisivo si rischia di capitolare poi su tutto lo scenario mediorientale. Se questo è già visibile anche negli altri ambiti dell’agenda politica e sociale nel nostro paese, è difficile immaginare che non avvenga anche sul piano della mobilitazione contro la guerra e sui problemi internazionali. Sulla Palestina e nella mobilitazione contro la guerra abbiamo sempre respinto ogni tentativo di connivenza con i gruppi della destra. Intendiamo continuare a farlo ma vogliamo anche segnalare che – come sul piano sociale o giovanile – è l’assenza di iniziative e la debole identità della sinistra a facilitare il compito ai fascisti, non viceversa. E’ necessario dunque che alla coerenza con le posizioni e il ruolo svolto dalle nostre reti, associazioni, organizzazioni in questi venti anni e che ha visto schierarci sempre contro la guerra senza se e senza ma, si affianchi un recupero di identità e di contenuti.
f) La seconda difficoltà che abbiamo dovuto registrare è stata quella di una lettura superficiale del nesso tra la crisi che attanaglia le maggiori economie capitaliste del mondo (Stati Uniti ed Unione Europea soprattutto) e il ricorso alla guerra come strumento naturale della concertazione e della competizione tra le varie potenze e i loro interessi strategici. Una concertazione evidente quando si tratta di attaccare e disgregare gli stati deboli (Libia, Jugoslavia, Afghanistan) , una competizione quando si tratta di capitalizzare a proprio favore i risultati delle aggressioni militari (Georgia, Iraq. Libia). Se il colonialismo classico è andato all’assalto del Sud del mondo per accaparrarsi le risorse, il neocolonialismo è andato a caccia di forza lavoro a basso costo. Ma dentro la crisi di sistema che attanaglia le maggiori economie capitaliste del mondo, queste due dimensioni oggi si sono ricomposte nella loro sintesi più alta e aggressiva. Alcuni di noi la definiscono come imperialismo, altri come mondializzazione, comunque la si chiami oggi si è riaperta una competizione a tutto campo per accaparrarsi il controllo di risorse, forza lavoro, mercati e flussi finanziari. Questa conquista ha come obiettivo soprattutto l'economia dei paesi emergenti e quelli in via di sviluppo che molti ritengono poter essere l’unica via d’uscita e valvola di sfogo per la crisi di civilizzazione capitalistica che sta indebolendo Stati Uniti ed Unione Europea. In tale contesto, la guerra come strumento della politica e dell’economia è all’ordine del giorno. Se pensiamo di aver visto il massimo degli orrori in questi anni, rischiamo di doverci abituare a spettacoli ben peggiori. L’alleanza – non certo inedita – tra potenze occidentali, petromonarchie e movimenti islamici ha rimesso in discussione molti schemi, a conferma che il processo storico è in continua mutazione e che limitarsi a fotografare la realtà senza coglierne le tendenze è un errore che rischia di paralizzare l’analisi e l’azione politica.
I firmatari di questo documento declinano in modo diverso categorie come imperialismo, mondializzazione, militarismo, disarmo, antisionismo, anticapitalismo, pacifismo, solidarietà internazionale e internazionalismo, ma convergono su un denominatore comune sufficientemente chiaro nella lotta contro la guerra e le aggressioni militari.
Per queste ragioni condividiamo l'idea di promuovere:
Il percorso comune di riflessione che ha portato a questo documento
La costituzione di un patto di emergenza per essere pronti a scendere in piazza se e quando ci sarà una escalation della Nato e dei suoi alleati contro la Siria al quale chiediamo a tutti di partecipare
l’impegno ad un lavoro di informazione e controinformazione coordinato che contrasti colpo su colpo e con ogni mezzo a disposizione la manipolazione mediatica che spiana la strada a nuove “guerre umanitarie”, anche in Siria
Sottoscrivono per ora questo documento:
Rete Romana No War
Rete Disarmiamoli
Militant
Rete dei Comunisti
Partito dei Comunisti Italiani
Forum contro le guerre
Comitato Palestina, Bologna
Comitato Palestina nel Cuore, Roma
Gruppo d'Azione per la Palestina, Parma
Collettivo Autorganizzato Universitario, Napoli
Csa Vittoria, Milano
Alternativa
Federazione Giovani Comunisti
Forum Palestina
Associazione Oltre Confine
Associazione amici dei prigionieri palestinesi, Italia
Comitato per la smilitarizzazione di Sigonella
Brigate per la Solidarietà e la e per la Pace-Brisop- Toscana
Coordinamento Nazionale per la Jugoslavia – onlus
Collettivo G. Tanas
Tifiamo Rivolta
Gruppo Facebok Siria
Federazione Napoletana del Partito della Rifondazione Comunista
Redazione ALBAinFormazione
SLAI COBAS per il sindacato di classe coordinamento nazionale
Federazione Giovani Comunisti Italiani Torino
Sinistra Critica Sarda ;
Circolo culturale " Il minatore rosso "
Brindisi per Gaza
Coordinamento II Policlinico Napoli
Associazione Ita-Nica circolo C.Fonseca : Livorno-
Rete Antifascista di Brescia
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Spagna: crisi, occupazioni delle terre e accodamenti consociativi del centro - sinistra.
Written by nuestra america
Commissione Internazionale della Rete dei Comunisti
31 maggio 2012
L’economia spagnola in questi ultimi decenni ha ridotto in maniera consistente le proprie dotazioni industriali, delocalizzando l’attività produttiva e trasformandosi in un paese consumatore di beni importati anche dalla Germania, fornita di ben più forti e qualificati apparati industriali, condividendo così lo stesso destino di Portogallo, Irlanda, Italia e Grecia.
A distanza di undici anni dall’istituzione dell’euro –che è stato costruito su misura della necessità tedesca di avere una moneta forte in grado di competere con le altre valute extra europee, per cui i tassi di cambio fissati per gli altri stati europei non sono stati valutati in base alla ricchezza di ciascuna nazione, ma in funzione delle necessità competitive sia economiche che monetarie della Germania- proprio i cosiddetti PIIGS sono i paesi che maggiormente pagano i costi della crisi sistemica in cui versa il modo di produzione capitalistico che non riesce più a ricavare dall’economia reale tassi di profitto considerati adeguati per far ripartire il sistema.
In tutti questi paesi , l’Unione Europea, La Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale hanno imposto lo stesso piano di rigore per risanare i debiti che in larga parte sono privati (banche e imprese), ma che vengono scaricati sul debito pubblico (oggi rinominato debito sovrano), cioè dei cittadini o meglio solo delle fasce più deboli della popolazione, perché sono loro, gli operai, i contadini, i lavoratori della pubblica amministrazione, i precari e i pensionati, coloro che devono sostenere sulle loro spalle i costi dei tagli alle pensioni, alla sanità, all’istruzione pubblica, alla ricerca, ma anche i costi delle controriforme del lavoro e delle pensioni che vogliono dire solo cancellazione dei diritti acquisiti con decenni di lotte.
Mentre, al contrario, le solide rendite degli imprenditori, dei finanzieri, dei proprietari terrieri, dei costruttori vengono graziate da qualsiasi forma di tassa patrimoniale. In Italia la sperequazione sociale è ancora più accentuata ed è proprio di questi ultimi giorni il giudizio tranchant espresso nella bozza del rapporto annuale della Commissione europea, diffusa in anticipo dal Financial Times, che stigmatizza il governo Monti per non aver fatto abbastanza per combattere e contrastare la diffusione dell'evasione fiscale e il lavoro nero. Ricordiamo per inciso che il 30% del PIL italiano è imputabile all’economia criminale e all’economia sommersa.
La Spagna, come tutti gli altri PIIGS, ha accettato le imposizioni della troika: il premier spagnolo Mariano Rajoy del PPE ad aprile ha varato una finanziaria, la più pesante per la Spagna dal 1970 ad oggi, di ben 28 miliardi di euro, di cui dieci miliardi hanno colpito la sanità e sette l’istruzione. I cittadini dovranno pagare il ‘copago’, un ticket sanitario molto pesante soprattutto per i pensionati già alle prese con l’aumento del costo della vita. La disoccupazione ha toccato ufficialmente quota 25%.
Anche in Spagna la politica del governo ha fatto ricadere i tagli della spesa pubblica a cascata sugli enti locali, che a loro volta, sempre in nome della riduzione del deficit, hanno attuato ulteriori tagli alle spese sociali e imposto ai cittadini ulteriori tasse. Il governo della regione di Valencia, ad esempio, ha immediatamente annunciato il licenziamento di ben 5000 dipendenti delle amministrazioni locali e la privatizzazione delle aziende municipalizzate controllate dall’amministrazione regionale.
In Andalusia, il cui governo regionale è guidato dal PSOE e da IU Izquierda Unida, le cose non vanno meglio. Lì, addirittura prima del varo della finanziaria da parte del governo centrale, la giunta regionale ha deciso di mettere all’asta e vendere ai privati ben 20 mila ettari di suolo pubblico, compromettendo il diritto al lavoro degli agricoltori e la sovranità alimentare della regione.
Per secoli, prima dell’industrializzazione, questi terreni sono stati il cuore pulsante dell’economia nazionale da cui veniva gran parte della produzione dell’olio d’oliva, della frutta e della verdura consumata in Spagna. Nei decenni passati, invece, i proprietari terrieri hanno preferito i più facili guadagni offerti dal business dell’edilizia, destinando le terre alla costruzione di case o, più recentemente, hanno preferito lasciarle improduttive, approfittando delle sovvenzioni dell’Unione europea.
Secondo il SAT Sindicato Andaluz de Trabajadores, ogni anno i proprietari terrieri spagnoli ricevono da Bruxelles 6,5 miliardi di euro come contributi comunitari all’agricoltura. “E non viene chiesto loro conto di questi soldi, che potrebbero essere investiti per migliorare la produttività e dare lavoro a migliaia di persone […] è un insulto”. Questo avviene quando, in realtà, ci sono migliaia di disoccupati che cercano di sopravvivere con i 426 euro del sussidio di disoccupazione. “Per questo - prosegue il SAT - davanti a una crisi così grave, non possiamo permettere che la terra finisca nelle mani di quattro signorotti che la lasceranno morire aspettando le sovvenzioni dell’Unione europea.”
Rubén Villanueva, portavoce della COAG Coordinadora de Organizaciones de Agricultores y Ganaderos, ha chiarito che per ottenere un sussidio base da parte dell’Ue è sufficiente essere proprietari di un terreno e tenerlo in condizioni “economicamente corrette”, e cioè pronto alla lavorazione, ma non necessariamente produttivo. Oggi l’80% dei fondi finisce nelle tasche del 20% dei proprietari terrieri che hanno una maggiore disponibilità di terra.
Il COAG ha chiesto che nella riforma della PAC Politica Agricola Comunitaria del 2013 il contributo economico europeo per i proprietari o affittuari venga vincolato all’effettiva produttività della terra, per impedire il perpetuarsi dello scandalo di un’altissima disoccupazione bracciantile a fronte di terre incolte, abbandonate a se stesse.
Oggi con la crisi che colpisce in maniera pesante l’agricoltura, portando la disoccupazione a livelli altissimi, la Giunta dell’Andalusia del PSOE e di IU, anziché pensare a un piano per la piena occupazione dei braccianti, ha pensato bene di mettere in vendita all’asta 20.000 ettari di terreni pubblici. Per il 5 marzo era prevista l’asta per una finca di sua proprietà, la fattoria di Somonte di 400 ettari, nei pressi della cittadina di Palma del Río che registra più di 1.700 disoccupati e altri 4.000 nei paesi vicini.
Ma qualcuno li ha anticipati e il 4 marzo ha deciso di riprendersi quella terra e di riappropriarsi così del lavoro. Più di 500 persone tra disoccupati e non solo contadini, sindacalisti e simpatizzanti del movimento hanno occupato la finca di Somonte, dando vita a una comune che ha suscitato subito la simpatia e il sostegno anche a livello nazionale di varie associazioni di contadini che già guardano a Somonte come a un modello.
Gli occupanti si sono costituiti in cooperativa di braccianti e hanno immediatamente interpellato la giunta regionale per l’accoglimento del loro progetto di collettivizzazione delle terre, contro la privatizzazione, progetto che prevede, tra l’altro, la piena occupazione di 80 lavoratori, la garanzia del rispetto dell’ambiente, il non utilizzo di Ogm e di additivi chimici inquinanti, affinché fosse impedita la vendita all’asta agli speculatori che avrebbero beneficiato delle sovvenzioni europee e di guadagni derivanti da uno sfruttamento agricolo estensivo e industrializzato per agro combustibili e Ogm, senza generare occupazione.
La giunta in un primo momento ha dichiarato anche alla stampa di non aver ancora preso una decisione, ma in seguito ha presentato una denuncia contro gli occupanti e ha richiesto l’intervento della Guardia Civil per lo sgombero della fattoria, come ai tempi di Francisco Franco. Sgombero che è puntualmente avvenuto il 26 aprile; ma, tempo 24 ore, i braccianti l’hanno immediatamente rioccupata al grido di “la terra a chi la lavora", organizzando una grande festa per il 1° maggio per ribadire il sacro diritto di poter lavorare le terre improduttive e abbandonate a se stesse.
L’occupazione delle terre in opposizione all'ondata di privatizzazione delle terre pubbliche non è una lotta limitata alla regione andalusa né alla sola Spagna, perché lotte e vertenze simili stanno accadendo in Romania, Austria, Francia dove i braccianti rivendicano il diritto di accesso alla terra e chiedono la sovranità alimentare dei popoli. Dal 23 al 25 aprile si è tenuta a Roma, presso la Città dell'Altra Economia, l’annuale Assemblea Generale del Coordinamento Europeo di Via Campesina (ECVC): dalla tre giorni è emersa con forza “la volontà di dare sostengo e solidarietà a tutte le persone che ogni giorno preservano la risorsa terra coltivandola con metodi rispettosi dell’ambiente e delle persone. Un forte impegno quindi per garantire l’accesso alla terra come volano per garantire l’accesso a tutte le risorse (acqua e sementi in primis).”
La terra è un bene comune fondamentale che appartiene a chi la lavora e non deve essere né mercificata né oggetto di speculazioni; la terra come le semenze, l’aria e l’acqua sono risorse che devono essere gestite dalle comunità locali, nella piena integrazione e rispetto per l’ambiente. Per questo oggi l’unica alternativa alla crisi dell’agricoltura è rappresentata dalla lotta per la terra e dalla sovranità alimentare.
Non può essere una soluzione quella portata avanti dalle istituzioni -con l’aggravante di essere di “sinistra” nel caso dell’Andalusia- che pensano solo a realizzare profitti con la privatizzazione delle terre, per cercare di sopravvivere alla crisi, ma che in realtà provocano solo nuove espulsioni di forza lavoro ,spesso molto specializzata in quel settore, dalla terra e creando così maggiore disoccupazione, incrementando la precarietà e sempre maggiore povertà.
Oggi in nessun settore economico-produttivo, e ancor meno nell’agricoltura dove si producono beni di prima necessità,non si possono illudere i lavoratori facendogli credere che è possibili cogestire la crisi sistemica coniugando l’inconciliabile, e cioè rigore (finora a senso unico) e il suo opposto, cioè politiche espansive per la crescita, misurandosi esclusivamente sul terreno delle compatibilità puramente economiche di mercato ,come vanno sostenendo gli economisti keynesiani tra cui alcuni che si definiscono marxisti e i partiti della sinistra europea che hanno da tempo rinunciato nei loro programmi alla politica del conflitto sociale per la realizzazione di un’alternativa anticapitalista.
La risposta del mondo contadino, operaio , impiegatizio, di tutto il mondo del lavoro e del lavoro negato,alla crisi sistemica capitalistica può essere solo quella di riappropriarsi della politica; una politica che indirizza e domina l’economia in capacità di risposte in una nuova stagione di protagonismo sociale e sindacaleche sappia coniugare momenti rivendicativi tattici, possibili solo invertendo i rapporti di forza dell’attuale conflitto di classe dall’alto, con la costruzione dell’organizzazione di classe per la prospettiva strategica della trasformazione radicale della società in senso socialista.
Fonti:
http://www.lettera43.it/economia/macro/andalusia-diritto-alla-terra_4367551991.htm
http://www.sindicatoandaluz.org
http://www.agricolturacontadina.org/modules/imblogging/post.php?post_id=52
Forum Palestina
Continua la “Battaglia delle pance vuote” così in Palestina è conosciuta la lotta dei prigionieri politici palestinesi che a partire dal 17 aprile in 1500 hanno iniziato uno sciopero della fame, per il miglioramento delle durissime condizioni carcerarie e per la fine dell’odiosa pratica della detenzione amministrativa.
Lo sciopero della fame è ormai arrivato al 14 ° giorno, e va crescendo, ad oggi sono oltre 2300 gli scioperanti, un segnale chiarissimo della capacità di resistenza che sta crescendo tra gli oltre 4300 detenuti palestinesi. Tra questi Ahmad Sa'adat leader del FPLP le cui condizioni a seguito dello sciopero della fame si sono aggravate ed è stato trasferito nel carcere di Ramleh .
Con questa forma di lotta pacifica e drammatica, negli ultimi mesi i prigionieri politici palestinesi hanno portato lo scontro con l’occupante israeliano fin dentro le carceri, lanciando al tempo stesso un indicazione di unità e di resistenza verso il proprio popolo. Già ad ottobre dello scorso anno centinaia di prigionieri palestinesi iniziarono a rifiutare il cibo per tre settimane. E’ stata poi la volta di Kadher Adnan che ha resistito per più di 64 giorni nel suo sciopero della fame contro l’ennesimo arresto arbitrario e preventivo a cui era sottoposto, seguito da Hana Shalabi una donna che è stata rilasciata ed esiliata dopo oltre 40 giorni di digiuno politico. I prigionieri palestinesi insieme alle associazioni di sostegno come Addameer e la Palestinians’ Prisoners Society , chiedono:
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La fine della detenzione amministrativa; Il diritto alle visite per famiglie dei prigionieri della Striscia di Gaza, a cui questo diritto è negato da oltre 6 anni;
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Il miglioramento delle condizioni di vita dei prigionieri e la fine della legge 'Shalit', che priva i detenuti palestinesi dell’accesso ai giornali e ai media, e persino del materiale didattico .
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La fine alle le politiche di umiliazione inflitte ai detenuti e alle loro famiglie, quali perquisizioni corporali, le irruzioni notturne nelle celle e le punizioni collettive.
Dalle carceri israeliane i resistenti palestinesi chiedono la solidarietà internazionale, il sostegno alla loro lotta e la denuncia della macchina repressiva israeliana che si fa ogni giorno più dura. Dinanzi ai preparativi di possibile conflitto con l’Iran, e più in generale di fronte al quadro di instabilità e di tendenza alla guerra i palestinesi rappresentano, per i governanti sionisti, il fronte interno e quindi una popolazione estranea da tenere brutalmente sotto controllo. Come per altri aspetti, la comunità internazionale ossia l’Unione Europea e gli Stati Uniti, lasciano mano libera all’alleato israeliano che può così rafforzare la sua occupazione.
Questa lotta dei prigionieri palestinesi rappresenta una tappa del movimento di liberazione nazionale, ma a differenza di altre del passato si svolge in uno scenario inedito per difficoltà e contesto internazionale . Il movimento che si sta sviluppando nelle prigioni israeliane, sta crescendo per influenza e capacità organizzativa, tanto che nel secondo comunicato del Supremo Comitato Direttivo questi conferma la prosecuzione e l’estensione del movimento di protesta finché le richieste non saranno accolte.
Il Primo Maggio in Palestina è stata la giornata dei lavoratori e dei prigionieri, è stata l’ennesima giornata di resistenza popolare contro l’occupazione israeliana con manifestazioni in molte città e villaggi palestinesi.
Il movimento di solidarietà internazionalista è chiamato a sostenere come ha fatto nella giornata del 17 aprile la lotta dei prigionieri politici palestinesi .
Di Atilio A. Boron
(TRADUZIONE A CURA DELLA COMMISSIONE INTERNAZIONALE DELLA RETE DEI COMUNISTI)
In un giorno come questo, 129 anni fa, moriva serenamente a Londra, a 65 anni d’età, Karl Marx. Ha avuto la stessa sorte di tuti i grandi geni, sempre incompresi dalla mediocrità imperante e dal pensiero legato al potere ed alle classi dominanti. Come Copernico, Galileo, Servet, Darwin, Einstein e Freud, per nominarne solo pochi, è stato vituperato, perseguitato, umiliato.
E 'stato ridicolizzato da nani intellettuali e burocrati accademici che non gli arrivavano neanche alle caviglie, da politici compiacenti con il potere di turno ai quali ripugnavano le sue concezioni rivoluzionarie. L’accademia ha fatto molta attenzione a sigillare le sue porte, e né lui né il suo amico ed eminente collega, Friedrich Engels, hanno mai avuto accesso ai chiostri universitari.Per di più, Engels, di cui Marx avrebbe detto che era “l’uomo più colto d’Europa” non aveva neanche studiato nell’università.
Invece Marx e Engels hanno prodotto un’autentica rivoluzione copernicana nelle scienze umane e sociali: dopo di loro, malgrado sia difficile separare le loro opere, possiamo dire che dopo Marx, né le scienze umane né quelle sociali sarebbero tornate ad essere quelle di prima.L’ampiezza enciclopedica delle loro conoscenze, la profondità della loro prospettiva, la loro testarda ricerca delle evidenze che confermavano le loro teorie, hanno fatto sì che Marx, date tante volte per morte le loro teorie e la loro eredità filosofica, sia più attuale che mai.
Il mondo di oggi somiglia in modo sorprendente a quello che lui ed il suo giovane amico Engels avevano pronosticato in un testo stupefacente: Il Manifesto Comunista. Questo sordido mondo di oligopoli rapaci e predatori, di guerre di conquista, degradazione della natura e saccheggio dei beni comuni, di disintegrazione sociale, di società polarizzate e di nazioni separate da abissi di ricchezza, potere e tecnologia, di plutocrazie travestite per sembrare democrazie, di uniformità culturale tarata sull’American way of life, è il mondo che hanno anticipato in tutti i loro scritti.
Per questo nono molti quelli che ormai, nei capitalismi sviluppati, si chiedono se il ventunesimo secolo non sarà il secolo di Marx. Rispondo a questa domanda con un sì senza esitazioni, e già lo stiamo vivendo: le rivoluzioni in marcia nel mondo arabo, le mobilitazioni degli indignati in Europa, la potenza plebea degli islandesi che si scontrano e sconfiggono i banchieri, e le lotte greche contro i sadici burocrati della Commissione Europea, il FMI e la Banca Centrale Europea, il sentiero di polvere dei movimenti Occupy Wall Street che ha coinvolto più di cento città statunitensi, le grandi lotte che in America Latina hanno sconfitto l’ALCA, e la sopravvivenza dei governi di sinistra nella regione, cominciando dall’eroico esempio cubano, sono tante altre dimostrazioni del fatto che l’eredità del grande maestro è più vivo che mai.
Il carattere decisivo dell’accumulazione capitalista, studiato ne Il Capitale come in nessun altro posto, era negato da tutto il pensiero borghese e dai governi di questa classe che affermavano che la storia era mossa dalla passione dei grandi uomini, dai credo religiosi, dai risultati di eroiche battaglie o impreviste contingenze della storia. Marx ha tirato fuori l’economia dalle catacombe e, non solo ha segnalato la sua centralità, ma ha anche dimostrato che tutta l’economia è politica, che nessuna decisione economica è scevra di connotazioni politiche.
Anzi, che non c’è sapere più politico e politicizzato di quello dell’economia, andando contro i tecnocrati di ieri e di oggi che sostengono che i loro piani regolatori e le loro assurde elucubrazioni econometriche obbediscono a meri calcoli tecnici e che sono politicamente neutri. Oggi ormai nessuno crede seriamente a queste favole, neanche i personaggi di destra (anche se si astengono dal confessarlo).
Si potrebbe dire, provocando il sorriso furbetto di Marx dall’aldilà, che oggi sono tutti marxisti però come Monsieur Jordan, quel personaggio de Il Borghese Gentiluomo di Moliere, che parlava in prosa senza saperlo. Perciò quando è esplosa la nuova crisi generale del capitalismo tutti sono corsi a comprare Il Capitale, cominciando dai governanti dei capitalismi metropolitani.
È che la situazione era, ed è, molto grave per stare a perdere tempo con le sciocchezze di Milton Friedman, Friedrich von Hayek o le monumentali stupidaggini degli economisti del FMI, della Banca Mondiale o della Banca Centrale Europea, tanto inetti quanto corrotti e che a causa di entrambe queste cose, non sono stati capaci di pronosticare la crisi che, come uno tsunami, sta spazzando i capitalismi metropolitani.
Per questo, per meriti propri e per vizi altrui, Marx è più vivo che mai e il faro del suo pensiero espande una luce ogni volta più chiarificatrice sulle tenebroso realtà del mondo attuale.