La riconquista del Mali da parte dell’armée francaise prosegue senza trovare particolare resistenza da parte delle formazioni islamiche, che sembrano aver scelto la ritirata anziché lo scontro aperto.
Le veline dell’ufficio stampa della NATO, sulla pericolosità delle formazioni jihadiste di AQIM, Ansar al Din e Mujao, subito rilanciate dalla stampa internazionale, non sembrano trovare riscontro nella realtà, ma sicuramente hanno fornito il pretesto per l’intervento militare francese. Il Mali sembra soffrire innanzitutto della storica dipendenza dalla Francia, che ne ha annichilito la crescita economica e politica, vincolando la classe dirigente maliana agli interessi francesi.Decenni di malgoverno, di spoliazione di ricchezze e relativa corruzione hanno determinato un’implosione dell’assetto statale del Mali. Oltre la metà degli undici milioni di abitanti del Mali vive sotto la soglia di povertà, (2$ il giorno), una condizione aggravata dalle politiche liberiste introdotte nel paese su indicazione del FMI. La crisi economica e la guerra alla Libia con la caduta del Governo Gheddafi, primo finanziatore della Banca Africana e dell’Unione Africana, hanno peggiorato la crisi interna del Mali e accentuato le spinte secessioniste. Così tra le popolazioni tuareg del nord (Azawad), costrette a fare i conti con una povertà estrema aggravata dalla siccità e dal crollo del turismo, hanno fatto presa le rivendicazioni del Movimento Nazionale per la Liberazione dell'Azawad (MNLA). L’MNLA un movimento laico che in un secondo momento è stato soppiantato dall’affermazione delle formazioni islamiche alla guida della secessione dell’Azawad. Nel Sahel come nel Magreb e nel Corno d’Africa, si è andata affermando la presenza e l’influenza dell’islam radicale, una presenza che è stata favorita dai paesi NATO, dalle potenze regionali come l’Algeria, e dai regimi del Golfo. Ma come si è rivelato in altri scenari, ad esempio in Afganistan, e più recentemente in Libia con la rivolta di Bengasi, l’alleanza tra imperialisti e network islamico jihadista, si dimostra essere un’alleanza molto conflittuale ed eterogenea, tanto da finire in scontri aperti.

 

E’ iniziato il XVIII Congresso nazionale del Partito Comunista Cinese, che durerà sette giorni, dall'8 al 14 novembre. Al congresso partecipano 2.300 delegati, scelti tra gli 82 milioni di iscritti del più grande partito politico del mondo, riuniti in 38 delegazioni. Le delegazioni rappresentano le 31 province cinesi, il Comitato centrale del PCC, gli organi del governo centrale cinese, le imprese controllate dal governo centrale, il sistema finanziario centrale, l'Esercito di liberazione popolare, la Polizia e i membri del PCC di Taiwan, che Pechino ha sempre considerato parte integrante del proprio territorio.

I mesi che hanno preceduto il Congresso sono stati caratterizzati da uno scontro politico che sarebbe semplicistico e probabilmente fuorviante ricondurre meccanicamente a uno scontro tra destra e sinistra o tra sostenitori di una ancora più marcata apertura al mercato e neo-maoisti. Di sicuro c’è che il potente leader Bo Xilai è stato spazzato via e la sua fazione dentro al PCC, messa in condizione di non nuocere.

L’attenzione in queste ore dei principali organi di informazione si sta comunque concentrando sui previsti cambiamenti al vertice del Partito, con il passaggio del testimone dalla quarta generazione, che ha avuto come capifila il presidente Hu Jintao e il premier Wen Jiabao, alla quinta generazione, che esprimerà come leader Xi Jinping (che dovrebbe diventare sulla base di questo congresso segretario del PCC per poi assumere il ruolo di presidente più avanti, probabilmente a marzo).

Cercheremo in questa settimana di cogliere i segnali e interpretare le tendenze di un processo, quello del socialismo cinese, da sempre complesso e contraddittorio, ma intanto vorremmo segnalare altri aspetti che rendono comunque questo XVIII Congresso una tappa decisiva per gli sviluppi politici ed economici nei prossimi decenni a livello mondiale.

Dalla fine del XX secolo la Cina è nuovamente un attore importante della economia globale, al punto che diverse previsioni stimano che diventerà intorno alla metà del XXI secolo, la forza più grande dell’economia mondiale.

Il fenomeno della straordinaria crescita economica della Cina (nonostante i previsti rallentamenti per il 2013 la crescita è stimata intorno al 7,5%) assume particolare importanza perché avviene mentre la attuale maggiore forza economica del mercato mondiale, gli Stati Uniti, sono in piena recessione economica e dentro una imponente crisi finanziaria.

Alla fine degli anni ’90, i “neocon” erano certi della totale supremazia in ogni campo degli Stati Uniti e preconizzavano che il XXI secolo sarebbe stato il Nuovo Secolo Americano. Oggi il rieletto Barak Obama è costretto a fare i conti con una crisi economica dalla quale non potrà uscire unicamente con l’abituale ricorso al keynesismo militare, alla rapina delle risorse petrolifere del pianeta, o innescando una nuova corsa agli armamenti, e da come stanno andando le cose non è certo da escludere che il nuovo secolo possa diventare il secolo cinese.

In ogni caso è del tutto evidente che il confronto/scontro tra Cina e USA e le strategie che metteranno in campo, saranno al centro e determineranno il grande gioco geopolitico che si svilupperà nei prossimi decenni. Per inquadrarne il contesto riportiamo un passo di un'intervista di Samir Amin tratta da Etudes marxistes n° 99.

Dal 1970, afferma Samir Amin, il capitalismo predomina il sistema mondiale con cinque vantaggi: il controllo dell'accesso alle risorse naturali, il controllo della tecnologia e della proprietà intellettuale, l'accesso privilegiato ai media, il controllo del sistema finanziario e monetario e, infine, il monopolio delle armi di distruzione di massa. Chiamo questo sistema " apartheid su scala globale"(segregazione su scala mondiale).


Implica una guerra permanente contro il Sud, una guerra iniziata nel 1990 dagli Stati Uniti e i suoi alleati della NATO in occasione della prima Guerra del Golfo. Ma i paesi emergenti, soprattutto la Cina, sono intenti a decostruire questi vantaggi. Per primo, la tecnologia. Si passa dal "Made in China" al "Made by China ". La Cina non è più l'officina del mondo per le filiali o i soci del grande capitale dei monopoli. Controlla la tecnologia per svilupparsi. In alcuni ambiti in particolare, quello del futuro dell'automobile elettrica, del solare, ecc., possiede tecnologie d'avanguardia in anticipo sull'occidente.

D'altra parte, la Cina lascia che il sistema finanziario mondializzato, si distrugga. E finanzia anche la sua autodistruzione attraverso il deficit americano e costruendo in parallelo mercati regionali indipendenti o autonomi attraverso "il gruppo di Shanghai", che comprende la Russia, ma potenzialmente anche l'India ed il Sud-est asiatico. Sotto Clinton, una relazione della sicurezza americana prevedeva anche la necessità di una guerra preventiva contro la Cina. E' per farvi fronte che i cinesi hanno scelto di contribuire alla morte lenta degli Stati Uniti, finanziandone il deficit. La morte violenta di una bestia di questo genere sarebbe troppo pericolosa”.

 

Inoltre a differenza degli Stati Uniti che hanno sempre puntato ad imporre la propria “visione del mondo”, la Cina ha saputo costruire alleanze strategiche basate sulla non ingerenza nei fatti politici interni dei propri partner commerciali e sulla volontà di esercitare un peso sempre crescente nei gangli vitali dello scacchiere internazionale.

 

L’ingresso nel dicembre 2001 nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO, che insieme al FMI, alla Banca Mondiale, alla UE, è tra i principali strumenti internazionali della globalizzazione imperialista), non ha impedito ad esempio alla Cina, di formare nello stesso anno, insieme alla Russia e altre repubbliche ex sovietiche, il Gruppo di Shanghai al quale partecipano come osservatori/partner anche India, Iran e Pakistan.

 

Lo stesso BRIC (Brasile, Russia, India, Cina) nato a Cancun nel 2003, che rappresenta gli interessi delle quattro economie emergenti più importanti del pianeta, è certamente un altro paletto infilato negli ingranaggi del WTO. A questo va aggiunto che la Cina sta diventando la principale potenza economica di riferimento in America Latina, attraverso importanti investimenti e scambi commerciali sulle materie prime con Brasile, Venezuela e Argentina, ed è il terzo partner commerciale dopo Stati Uniti e Francia del continente africano.

 

Forse sarebbe avventato un paragone con lo storico ruolo di contrappeso nei confronti dell’imperialismo svolto nel passato dall’URSS, ma è indubbio che la Cina nel contesto di una feroce e crescente competizione globale rappresenta un “freno” alla egemonia unipolare degli Stati Uniti.

 

In questo quadro, il XVIII Congresso dovrà necessariamente affrontare i problemi della crescita, dello sviluppo economico e dare risposta alle contraddizioni sociali esplose in questi anni, a partire dalla necessità di realizzare un maggior benessere per le grandi masse che popolano le immense aree rurali, la reintroduzione di un sistema sanitario pubblico garantito a tutta la popolazione, la lotta alla corruzione e le questioni strategiche legate alla difesa del paese.

 

Riguardo infine al ruolo dello Stato e al crescente peso del mercato, sebbene la vera spina dorsale dell'economia cinese sia rappresentata dalle piccole e medie imprese (che secondo diversi analisti generano circa due terzi del prodotto interno lordo), oltre la Grande Muraglia le società pubbliche continuano a fare la parte del leone. Dopo aver subito un drastico ridimensionamento nella seconda metà degli anni '90, nell'ultimo decennio le grandi aziende di Stato hanno recuperato tutto il loro potere. E oggi controllano i gangli vitali dell'economia cinese, anche grazie a un accesso privilegiato al credito.

 

Seguiremo quindi con grande attenzione e interesse il Congresso del PCC che sembra essere centrato principalmente sulle questioni economiche, per quanto attiene invece le scelte, le strategie politiche e le prospettive del socialismo cinese per la “costruzione di una società armoniosa” procediamo con cautela e cerchiamo di conoscere meglio e di approfondire prima di esprimere un giudizio definito e definitivo.

 

Commissione Internazionale della Rete dei Comunisti

 

 

 

 

 

 

 

della Commissione Internazionale della Rete dei comunisti

Dopo circa 14 mesi dalle prime manifestazioni di protesta a Daraa, Latakia e Homs, la situazione in Siria è entrata in una fase pericolosa, in cui le azioni armate hanno preso il sopravvento rispetto alle manifestazioni di piazza. Il primo dato da registrare è dunque la prevalenza dell’opzione militare all’interno dell’opposizione siriana che punta alla guerra civile per arrivare alla presa del potere. Obiettivo che, come ci dimostrano situazioni analoghe, necessita di alcuni passaggi graduali ma al tempo stesso netti e drammatici. Nonostante le formidabili pressioni internazionali e regionali, che vengono dai paesi della NATO e del GCC (Gulf Cooperation Council) e dopo oltre un anno di instabilità politica ed economica, il Governo e le istituzioni siriane, al contrario di quanto è accaduto di recente in Libia, non si sono sfaldate.

Il Governo Siriano del Fronte Progressista Nazionale, a guida Baath, ha provato a reagire non solo con l’uso della forza, ma anche con dei passaggi politici. Oltre alle manifestazioni di piazza, la ricerca del consenso è passata attraverso il referendum per le riforme istituzionali e le elezioni, passaggi sicuramente parziali ma che, insieme all’apertura di inchieste e alle visite degli ispettori internazionali, avvengono all’interno di un paese che sta vivendo momenti tragici, e attestano che il governo damasceno è alla ricerca di una soluzione politica. Una soluzione che però non pregiudichi l’assetto laico, l’ordinamento sociale e l’indipendenza del paese, così viene ribadito dalle forze che compongono il governo del Fronte Progressista Nazionale.

La coalizione degli “amici della Siria”, nonostante la lunga serie di insuccessi e difficoltà, continua ostinatamente ad andare avanti, premendo non tanto per una soluzione politica, quanto per l’opzione militare. Sono fallite le conferenze di Tunisi, Istanbul e l’ultimo incontro al Cairo. All’interno dell’opposizione siriana del Consiglio Nazionale Siriano e della Commissione di Coordinamento Nazionale ci sono profonde divisioni derivanti da logiche di potere. Su queste spaccature un ruolo lo giocano anche i diversi referenti internazionali :Arabia Saudita, Qatar, Turchia e NATO , che provano a far prevalere la componente a loro più vicina. In questo senso va letta la spaccatura nel CNS tra l’attuale portavoce Burhan Ghalioun ed il pretendente a succedergli George Sabra; nessuno dei due infatti smette di invocare l’intervento militare internazionale ed il sostegno alle azioni dell’Esercito Siriano Libero. La differenza rilevante è che George Sabra è un cristiano laico dirigente del Partito del Popolo, ed è politicamente più spendibile all’esterno e all’interno della Siria, meno riconducibile ai Fratelli Musulmani. Niente di più. George Sabra, mentre si definisce socialdemocratico, dichiara inequivocabilmente la sua scelta: “Quando la soluzione militare prende il centro della scena si presenterà poi il bisogno di soluzioni politiche per accompagnarla. Le armi alla fine si ammutoliscono e saranno messe da parte mentre la politica continua”.

I comunisti siriani in questi giorni sono sottoposti alle minacce ed alle intimidazioni da parte delle milizie islamiche, al punto che molti compagni, ogni notte, sono costretti a dormire in case diverse per il rischio di attentati. I segretari dei due Partiti Comunisti continuano a denunciare le ingerenze esterne che utilizzano la religione come strumento per prendere il potere da parte di forze la cui leadership politica è chiaramente ascrivibile ad una parte della borghesia islamica reazionaria. Al tempo stesso, i comunisti siriani denunciano le privatizzazioni, l’impoverimento dei salari, l’abbassamento del livello di vita e la proletarizzazione dei ceti medi, e chiamano alla mobilitazione e alla difesa dell’indipendenza nazionale.

Nel caso delle rivolte in Tunisia e in Egitto per l’intera comunità politica occidentale ed in particolar modo per la sinistra è stato più semplice comprendere lo scenario, un po’ meno capire le tendenze e le caratteristiche dei movimenti . L’involuzione delle primavere arabe ha spiazzato quanti troppo presto avevano parlato di rivoluzioni. Nonostante l’esito parziale, sono stati degli importanti segnali di risveglio e di protagonismo politico, hanno coinvolto le masse popolari di Egitto, Tunisia e Bahrein. Quest’ultimo anno ha visto l’affermazione dell’ Islam politico sunnita filo occidentale, che oggi governa o si candida a farlo in buona parte dei paesi che vanno dalla Turchia all’Africa mediterranea.

Quanti avevano guardato con simpatia ad Hamas o ai Fratelli Musulmani si sono dovuti ricredere: queste forze, come altre legate all’islam sunnita e wahabita, soggiacciono ad una visione dell’ordinamento statale perfettamente compatibile e coerente con le esigenze degli imperialismi. Il percorso storico dell’islam politico sunnita è legato a doppio filo alle case regnanti, saudite, hashemite e del Qatar. Le monarchie arabe hanno sempre represso in maniera spiccia e violenta i movimenti di indipendenza , progressisti, laici e popolari, nei loro paesi. La monarchia hashemita giordana, grazie al sostegno dei fratelli musulmani, allora al governo, massacrò oltre 70mila palestinesi nel settembre del 1970.

Proprio in questi giorni, diversi gruppi riconducibili ad Al Qaida hanno ricominciato a minacciare con le armi ed il terrorismo i progressisti palestinesi e libanesi nei campi del Libano e nelle città di Tripoli e Sidone. Nella complessa situazione libanese più di una volta il partito sunnita al-Mustaqbal (il Futuro) sostenuto dall’Arabia Saudita, ha utilizzato in funzione anti Hezbollah e contro la Siria formazioni come Fatah al Islam, Sir El-Dinniyeh, Jund al-Sham, o Ousbat Al Ansar. Sono queste formazioni che stanno rifornendo di uomini e armi l’Esercito Siriano Libero, ricavandone prestigio, peso politico e finanziamenti.

In Siria c’è una scontro mortale che oppone l’ultimo paese sede storica del pan-arabismo al pan-islamismo sunnita legato alla “Umma”, la grande nazione islamica. Più in generale si combattono due prospettive politicamente divergenti: quella del Fronte della Resistenza (Siria,Iran ed Hezbollah) da una parte e l’asse NATO, GCC ed Israele dall’altra. Quest’ultima è un’alleanza che condivide, non senza divergenze, interessi economici legati allo sfruttamento ed al passaggio di gas ed idrocarburi, investimenti ed assetts finanziari scambievoli, ed è legata da un solido sistema di cooperazione militare. Un network che ha saputo utilizzare forze militari atipiche quali i combattenti islamici, come è accaduto nella recente guerra civile in Libia, in Afghanistan o nella guerra contro la Jugoslavia.

Proprio in Kosovo si è recato l’attivista dei diritti umani del CNS Ammar Abdulhamid per una visita che aveva lo scopo di apprendere dall’esperienza dell’UCK . Non si tratta di una casualità, piuttosto è una riprova del coinvolgimento della NATO, che in Kosovo è presente con una base militare con oltre 6500 uomini.E’ in Kosovo o in altre basi NATO che si addestrano uomini come quello che ha dichiarato alla rivista Der Spiegel che la sua brigata ad Homs ha eliminato oltre 200 persone?

Quanti progressisti, comunisti , quanti semplici cittadini siriani, quanti militari moriranno in questa guerra civile? Come dovrebbe relazionarsi il governo rispetto ai gruppi paramilitari ed alle ingerenze esterne?

Negli ultimi mesi in Siria c’è stata una violentissima campagna di destabilizzazione, fatta di bombe ma soprattutto di omicidi mirati, che ha spostato il confronto sul piano di una guerra asimmetrica, tra due campi ben distinti: governo da una parte e CNS dall’altra.

Bombe ed attentati ovviamente sono cosa ben diversa dalle manifestazioni di protesta, nei confronti delle quali è necessario mantenere una relazione tutta politica e non di carattere militare: gravissima in questo senso la repressione manu militari della polizia siriana a Daraa.

Come per l’aggressione alla Libia, anche per quanto riguarda la Siria le strutture della NATO stanno lavorando per sostenere l’abbattimento dell’attuale ordinamento statale siriano, tirando in ballo la difesa dei diritti umani. La delegazione del CNS e dell’Esercito Siriano Libero ha da poco terminato un giro di consultazioni presso le maggiori capitali europee. In Italia ha incontrato il Ministro degli Esteri Terzi che, nel sottile linguaggio diplomatico, ha ribadito che l’Italia è tra i sostenitori del boicottaggio e dell’intervento militare contro la Siria, e che per L’Unione Europea l’interlocutore è il CNS e quindi l’Esercito Siriano Libero.

Per le organizzazioni di classe in Italia ed in Europa l’impegno è quello di denunciare come la guerra alla Siria è di per sè un atto criminale, che nasconde l’esigenza dell’UE di partecipare alla spartizione dei benefici che verranno da questa ennesima aggressione militare. L’attacco alla Libia, la guerra civile in Siria e le minacce all’Iran sono le tappe più recenti di quella guerra infinita avviata da Bush con la guerra contro l’Iraq, una guerra per la supremazia del Grande Medio Oriente.

Saranno i popoli dell’area del Mediterraneo, Europa compresa, a pagare i costi di questa guerra, dagli sviluppi imprevedibili.

Commissione Internazionale della Rete dei Comunisti

 

Note e spunti bibliografici :

http://www.resistenze.org/sito/te/po/si/posicd27-010927.htm

http://www.contropiano.org/it/esteri/item/8846-siria-i-miliziani-anti-assad-addestrati-in-basi-nel-kosovo

http://www.globalist.it/Detail_News_Display?ID=16394&typeb=0&L-opposizione-siriana-all-estero-perde-credibilita-in-patria

http://www.rand.org/publications/randreview/issues/2012/spring/iran.html

http://syriaintransition.com/

http://www.syriancp.org/ 

www.solidnet.org/syria-syrian-communist-party

 

 

 

 

 

 

 

Madrid, 29 maggio (Prensa Latina). Il governo conservatore di Mariano Rajoy ha annnunciato oggi l’espulsione dell’ambasciatore della Siria in Spagna, Hussam Edin Aala, radicalizzando la sua posizione contro il presidente di quel paese, Bashar al-Assad.

 

Secondo un comunicato del Ministero degli Esteri, il Governo Spagnolo ha deciso di dichiarare persona non gradita il diplomatico, di fronte a quella che ha qualificato come inaccettabile repressione esercitata dal regime siriano sulla propria popolazione

 

L’amministrazione del Partito Popular, di destra, ha deciso, inoltre, di espellere altri quattro membri della delegazione di Damasco a Madrid, ai quali sono state concesse 72 ore per abbandonare il territorio nazionale, precisa la nota ufficiale.

 

Alla rappresentanza rimarrà un diplomatico incaricato delle questioni consolari a prestare la debita assistenza ai cittadini siriani residenti in questa nazione europea, ha sottolineato la cancelleria.

 

con questa misura, la Spagna desidera trasmettere al regime siriano il suo fermo rifiuto all’escalation di violenza perpetrata contro la popolazione civile”, recita il comunicato.

 

Su questa linea richiama le autorità di quel paese ad approfittare dell’opportunità che offre il piano di pace dell’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, Kofi Annan, e applicare immediatamente le risoluzioni 2042 e 2043 del Consiglio di Sicurezza.

 

La Spagna si allinea così con il comportamento assunto da Francia, Germania, Italia e Regno Unito che hanno, anche loro, espulso questo martedì gli ambasciatori di Damasco nelle rispettive nazioni, secondo la versione dei giornali.

 

Riunito la scorsa domenica in sessione straordinaria, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha condannato il massacro perpetrato venerdì scorso nel centro abitato di Houla. Nella sua dichiarazione quest’organismo ha condannato la morte di decine di uomini, donne e bambini della menzionata popolazione, pur senza identificare direttamente i responsabili.

 

lac/edu

 

La Francia annuncia l’espulsione dell’ambasciatrice siriana

Parigi, 29 maggio (Prensa Latina). Il Governo francese ha adottato oggi una nuova misura contro la Siria annunciando l’espulsione dell’ambasciatrice del paese arabo a Parigi, Lamia Chakkour.

 

Secondo le dichiarazioni del presidente François Hollande, la decisione è stata presa previa consultazione con gli alleati europei.

 

La diplomatica dovrebbe uscire dal territorio gallico tra mercoledì e giovedì, ha aggiunto il governante in conferenza stampa, dopo essersi riunito qui con il presidente del Benín, Thomas Boni Yayi.

 

Hollande e il primo ministro britannico, David Cameron, hanno avuto, il giorno prima, una conversazione telefonica in cui hanno concordato di tenere ai primi di giugno in questa capitale una riunione del cosiddetto “gruppo di amici della Siria”.

 

Un comunicato dell’Eliseo accusa il governo del presidente Bashar Al Assad dei recenti atti di violenza nel paese arabo, mentre Damasco resposabilizza della crisi gruppi terroristi armati dall’estero.

 

Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha condannato lo scorso fine settimana il massacro occorso il venerdì nel centro abitato di Houla, senza identificare direttamente i responsabili.

 

lac/car

 

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