Intervista de l'AntiDiplomatico al direttore scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali del sindacato USB in vista della manifestazione del 20 ottobre a Roma per le nazionalizzazioni.

Finalmente in Italia si torna a discutere di nazionalizzazioni. A determinare il ritorno d’attualità di questo argomento cruciale per l’economia di una nazione hanno sicuramente contribuito le polemiche suscitate dal tragico crollo del Ponte Morandi a Genova. Evento che ha palesato il fallimento totale della privatizzazione delle autostrade italiane. Assurte a simbolo del fallimento di una strategia politica ultra-ventennale.

È datato 1993 infatti, all’epoca c’era il governo Amato, l’avvio della strategia che ha portato lo Stato a ritirarsi dall’economia. In ossequio ai dettami del neoliberismo. Dove tutto deve essere lasciato alla gestione della cosiddetta mano invisibile del mercato. Il fallimento di una siffatta teoria economica è sotto gli occhi di tutti. Con un’Italia in piena devastazione economica e sociale.

Di un tema centrale e ineludibile, quale le nazionalizzazioni, per qualunque forza politica voglia risollevare le sorti del paese e le condizioni di vita della classe operaia e delle larghe messe popolari abbiamo deciso di discuterne con Luciano Vasapollo, direttore scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali del sindacato USB; professore di Analisi Dati di Economia Applicata alla «Sapienza» Università di Roma, Delegato del Rettore per le Relazioni Internazionali con i Paesi dell’America Latina e dei Caraibi; e professore all’Università de La Habana (Cuba) e all’Università «Hermanos Saíz Montes de Oca» di Pinar del Río (Cuba); autore del libro “Pigs. La vendetta dei maiali”, insieme a J.Ariolla, R.Martufi - che segue Pigs. Il Risveglio dei maiali - in cui si approfondisce la discussione sulla necessità della rottura della gabbia dell’Unione Europea e si avanza una proposta politica che allude ad un area alternativa Euro/Mediterranea sganciata dai dispositivi di dominio, rapina e sudditanza della borghesia continentale europea.


INTERVISTA

Professore, la parola nazionalizzazione è tornata al centro del dibattito pubblico dopo che per un lungo periodo questa è sembrata una bestemmia. Quali obiettivi si propongono quelle forze politiche che daranno vita alla manifestazione incentrata proprio sulle nazionalizzazioni il prossimo 20 di ottobre a Roma?

Al centro degli obiettivi di questo appuntamento di mobilitazione c'è il rilancio della parola d'ordine – un vero e proprio programma di medio periodo – della Nazionalizzazione dei settori strategici della produzione.

C'è voluta la catastrofe di questa estate del ponte Morandi a Genova per riportare all'ordine del giorno - del dibattito pubblico e dell'agenda politica - l'autentico disastro sociale prodotto dalla lunga stagione di privatizzazioni, dismissioni, esternalizzazioni e depauperamento del patrimonio industriale ed infrastrutturale del nostro paese. Una sequenza che ha pesantemente segnato il corso economico del capitalismo italiano almeno negli ultimi 25 anni provocando non solo una deregolamentazione del lavoro e dei diritti ma anche un peggioramento della quantità e della qualità dell'offerta dei servizi pubblici ed essenziali.

Infatti - volendo periodizzare questa fase di ristrutturazione del Sistema/Italia - possiamo datare dal periodo di vigenza del governo Amato (1993) l'avvio della lunga serie di privatizzazioni che hanno modificato il volto e la struttura del capitalismo tricolore unitamente al complesso delle relazioni produttive, economiche e normative dell'Azienda/Italia.

Abbiamo vissuto una intera fase della storia economica in cui soggetti finanziari famigerati come Société Générale, Rothschild, Crédit Suisse, JP Morgan, Goldman Sachs (ossia la cupola dei poteri forti del capitalismo internazionale) hanno fatto ‘il bello ed il cattivo tempo’ cannibalizzando la struttura industriale italiana, dettando le condizioni della sua svendita, le conseguenti politiche anti-operaie da applicare verso i lavoratori interessati da questi processi ed imponendo la linea di condotta da seguire la quale - seppur con approcci differenziati - è stata supinamente accettata ed applicata supinamente dal susseguirsi dei vari esecutivi di governo nel corso di questi decenni.

Del resto il consumarsi di alcune vicende simbolo degli ultimi anni – Alitalia, Ferrovie, Sip/Telecom ed Ilva in primis – hanno riproposto uno scenario economico in cui vige, unicamente, la logica del profitto a tutti i costi, l'abbandono di ogni parvenza di clausola sociale, l'assenza di una qualsivoglia forma di programmazione con una idea di sviluppo generale utile per la collettività ed il trionfo del feroce totem ultraliberista della “centralità del mercato”.

Il tutto è avvenuto in una congiuntura politica dove i processi di centralizzazione e concentrazione dei settori più forti della borghesia continentale (annidati attorno al nocciolo duro dell'Unione Europea) hanno favorito e spinto le dinamiche di spoliazione, ridimensionamento e declassamento dell'economia del nostro paese in direzione di una generale svalorizzazione della forza lavoro e della sua qualità salariale, normativa e professionale. Un processo scientificamente pianificato che è stato funzionale alla nuova divisione del lavoro e delle sue filiere lungo tutta la Eurozona in un contesto oggettivo di accelerazione di tutti i fattori della competizione internazionale tra blocchi e potenze globali.

Come siamo arrivati a questo punto?

Il conflitto sociale e la forza del movimento operaio crescevano e quando l'ammortizzatore dello Stato sociale e delle nazionalizzazioni non sono più serviti, il grande capitale nazionale e transnazionale, e quindi anche gli Stati Uniti, hanno giocato in Italia l'arma del terrorismo e del fascismo. Ricordiamo la stagione delle stragi impunite, i tentativi di colpo di Stato. Non c'è un capitalismo buono e uno cattivo. Il capitalismo usa i suoi strumenti in funzione dei rapporti di forza. Quando i rapporti di forza erano positivi per i lavoratori il capitale ha dovuto concedere le nazionalizzazioni e lo Stato sociale. Una volta sconfitto il movimento operaio ha operato una ‘normalizzazione’ cancellando tutte le conquiste strappate attraverso decenni di lotta.

In questo scenario quale è stato il ruolo dell’Unione Europea, una costruzione basata sul neoliberismo?

Il ruolo dell’Unione Europea è quello definito dall’ortodossia neoliberale. L’UE non è nata come luogo dei popoli o per assicurare ai popoli una maggiore democrazia. Questa sta funzionando esattamente per come è stata concepita. La struttura di quella che possiamo definire la gabbia europea è fondata sui trattati che ne rappresentano l’architrave e l’essenza stessa, a partire da quelli di Roma del ’57 fino ad arrivare al famigerato “Fiscal Compact”. Un architrave, quello dei trattati, che ha prodotto un sistema di governo post-democratico negli stati membri con la relativa espulsione della sovranità democratica e popolare, la distruzione dello stato sociale, la privatizzazione dei servizi pubblici, la precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro, distruggendo quel diritto al lavoro che crea una “vita degna per sé e per la propria famiglia”, come recitato dalla nostra stessa Costituzione. I trattati, infatti, sono completamente incompatibili con essa, soprattutto con i principi fondamentali che garantiscono stato sociale, salute, tutela dell’ambiente e diritto al lavoro. Da qui si percepisce la grande volontà posta in campo negli ultimi anni per cambiarla, per fondarla sulla libera concorrenza di mercato, anche se in realtà è già stata minata alla radice con la famosa introduzione del pareggio di bilancio, articolo 81. L’attuale formulazione dell’articolo, difatti, impedisce di realizzare politiche economiche espansive, rivolte al bene pubblico, al sociale, fuori dall’egida del profitto e del pareggio di bilancio; cosa di cui incominciamo a vedere le conseguenze con la caduta del ponte Morandi a Genova. Il testo affronta la problematica dell’”Europa a due velocità”, “centro- periferia” che sta ridefinendo i rapporti tra i paesi del centro a guida franco-tedesca e quelli del sud, relegando quest’ultimi ad essere in ultima istanza fornitori di manodopera e servizi perlopiù turistici e di ristorazione.
Una situazione che ha visto i paesi PIGS particolarmente penalizzati.

I paesi cosiddetti PIGS sono stati massacrati attraverso la logica del credito-debito che rafforza la sudditanza dei paesi periferici nei confronti dei paesi del centro. La vicenda greca in tal senso è paradigmatica.

Professore, affrontiamo un tema caldo e spesso agitato come uno spauracchio: l’Italia dovrebbe uscire dall’euro?

È utile ribadire che la questione dell’uscita dall’euro e dall’Unione Europea non è da noi concepita in chiave nazionalista, cioè di generica, impropria, inadeguata e dannosa sovranità nazionale ma ha una dimensione immediatamente di classe perché è un passaggio, se storicamente affrontato da una soggettività politica consapevole e capace di svolgervi una funzione, in grado di porre le basi per una inversione dei rapporti di forza lavoro-capitale nel polo imperialista europeo.

La creazione dell’euro è stata accompagnata dall’intensificazione del mercato unico e dalla divisione europea del lavoro, andando verso una formazione sociale su scala europea – attualmente, un quarto del PIL dei paesi dell’Europolo viene valutata per mezzo del mercato comune e la specializzazione settoriale intraeuropea si trova in una fase di deindustrializzazione accelerata della periferia dell’area. Nonostante questo processo non sia ancora stato completato, la frammentazione monetaria dell’Euro-zona è una possibilità reale, ciò che non lo è, è tornare a monete nazionali che lungi dal rappresentare una sovranità (monetaria) recuperata, non potrebbero non essere che simboli monetari di territori politicamente ed economicamente frammentati e dipendenti dall’area di influenza del capitale europeo. Se i paesi della periferia europea vogliono riprendere il controllo sull’attività produttiva, lo potranno fare solo in modo congiunto e mediante un processo di rottura con il modello delle finanze private e con lo spazio monetario asimmetrico di adesso. L’uscita dall’euro è una opzione politica più che economica e può essere un passo verso la soluzione dei gravi squilibri strutturali delle economie periferiche, che non sono squilibri finanziari, ma produttivi: una base industriale in declino, uno spreco enorme di forza lavoro, una concentrazione scandalosa della ricchezza e del patrimonio. Però come sfida politica generale, supera il grado di autonomia decisionale di qualsiasi paese danneggiato dalla politica che soggiace al patto originario dell’euro.

Uscire dall’euro proponendo una nuova moneta per Paesi con strutture produttive più o meno simili sarebbe l’unica alternativa realizzabile, che permetterebbe sia di mantenere un margine di negoziazione con le istituzioni comunitarie e con la Banca Centrale Europea sia di creare un nuovo blocco politico istituzionale capace di realizzare un modello di accumulazione favorevole ai lavoratori.

Quindi c’è vita oltre l’euro e l’Unione Europea…

Riveste, a questo proposito, particolare importanza – per i suoi auspicabili risvolti politico/pratici nei confronti delle lotte popolari e dei movimenti sociali – il Programma di Alternativa di sistema: uscire dalla UE, dall'Euro, costruire l'Area Euromediterranea, recentemente adottato dalla Piattaforma Sociale Eurostop, il quale individua nelle lotte per imporre la Nazionalizzazione dei settori strategici dell'economia un punto programmatico serio e costitutivo per quell'indispensabile accumulo delle forze e strutturazione di un nuovo movimento operaio e popolare in grado di imporre un’altra economia ed una nuova configurazione geo/politica dei popoli del Mediterraneo.

Non bisogna aver paura d’immaginare di valicare il limite dell’esistente. Quindi la necessità di costruire l'Area Euromediterranea per smontare la paura del salto nel buio che quotidianamente ci viene propinato a reti unificate da un’informazione in malafede e spesso ignorante. Per contrastare, inoltre, ed invertire nonché scalzare le presenti e nuove mire neo-coloniali che producono migliaia e migliaia di immigrati ed emigrati, affermando un progetto nel quale l’autodeterminazione dei popoli è la base per un’alleanza internazionalista che non ricada o scambi l’internazionalismo nel globalismo borghese, fatto di genti apolidi che se la prendono sistematicamente con il loro vicino più povero come causa di tutti mali.

Per chiudere vorrei chiederle un giudizio sull’attuale governo che ha compiuto alcuni timidi passi in discontinuità con il passato.

Il nostro governo è molto contraddittorio. Dal punto di vista sociale si propongono le nazionalizzazioni, anche di settori strategici e di società come Alitalia. Noi sosteniamo queste nazionalizzazioni. Per questo motivo sabato 20 saremo in piazza per incalzare il governo su questo tema strategico per l’economia italiana. A noi non interessa nulla se siano Di Maio o il Movimento 5 Stelle a proporre le nazionalizzazioni. Le esigiamo come misura necessaria a risollevare le sorti economiche dell’Italia e della popolazione piegata da oltre vent’anni di neoliberismo sfrenato. Così come siamo favorevoli allo sforamento dell’assurdo vincolo di bilancio imposto da Bruxelles per implementare il reddito di cittadinanza ed abolire la legge Fornero. Vigileremo affinché il governo operi per migliorare le condizioni di vita della classe lavoratrice e della popolazione italiana.

Dall'altra parte invece ci sono ministri e forze di governo eversive, non solo sovversive. Che non hanno a cuore le sorti del paese né buone relazioni internazionali. In primis la Lega con le sue politiche razziste e xenofobe.

Altro esempio è costituito dalla recente partecipazione del ministro dell’Economia e delle Finanze, Giovanni Tria, a una riunione con altri 14 ministri delle finanze di diversi paesi satelliti di Washington convocata dal Segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Steven Terner Mnuchin, per discutere del Venezuela. Un’ingerenza inaccettabile negli affari interni di Caracas. Giovanni Tria, indicato come parte di quell’area ‘grigia’ del governo cosiddetto giallo-verde, che risponde direttamente al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, altro non ha fatto che schierare l’Italia contro un paese sovrano che tra mille difficoltà cerca di superare una difficile congiuntura economica, e vincere una guerra economica senza quartiere scatenata da quella che è, al momento, la prima potenza mondiale. Confermando che il governo di Roma è quantomeno schiacciato sulle posizioni guerrafondaie di Donald Trump.

Fatemi dire, infine, che questo paese non ha opposizione. Perché il PD è il primo colpevole di tutte le leggi liberticide, le privatizzazioni e le concessioni alle multinazionali. Pensiamo alle cosiddette liberalizzazioni promosse da Pierluigi Bersani. I criminali bombardamenti effettuati contro la Serbia quando a capo del governo italiano c’era Massimo D’Alema. Questi dirigenti, che hanno svenduto e distrutto la sinistra italiana, hanno spalancato le porte del paese alla Troika. Non hanno alcun legame con la classe operaia e lavoratrice, perché rispondono solamente agli interessi di determinati settori del capitale internazionale.

Questo è un paese che attualmente è senza governo ed opposizione. L'unica opposizione è quella delle strade, l'opposizione è quella dei pochissimi mass-media liberi e indipendenti, e quella di sindacati come l'USB, dei movimenti sociali e di forze come Potere al Popolo che cercano di organizzarsi e darsi una prospettiva. Una prospettiva che insieme a Eurostop e altri movimenti indichiamo nell’uscita da Euro e NATO, per la creazione di un’ALBA Euromediterranea, che abbia come modello l’esperienza latinoamericana. Quindi nazionalizzazioni, sviluppo autodeterminato e democrazia economica a carattere socialista.

https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-il_neoliberismo_produce_miseria_e_povert_e_ora_di_nazionalizzare_intervista_al_professor_luciano_vasapollo/5496_25746/

 

Il Professore Luciano Vasapollo, autorevole economista ed esperto di America Latina, ha partecipato alla manifestazione “L’Unione Europea è una gabbia”, occasione in cui ha presentato il libro di cui è co-curatore, “Pigs. La vendetta dei maiali”. Il volume è pubblicato da Eurostop, uno degli organizzatori dell’incontro che ha tenuto luogo ieri in una Genova ancora sanguinante per la tragedia del crollo del Ponte Morandi. Le responsabilità della catastrofe, che ha provocato 43 morti il 14 agosto scorso e reso oltre 600 persone degli sfollati, sono da attribuire alle privatizzazioni, cominciate nel nostro paese con il governo Amato nel 1993 e proseguite fino ad oggi. Queste hanno regalato ai privati interi pezzi strategici della nostra economia e sono state dettate dall’UE, che ha stretto i paesi dell’Area Euro-Afro-Mediterranea in una asfissiante morsa.

Per questa ragione “Pigs. La vendetta dei maiali”, di cui Luciano Vasapollo è uno dei curatori insieme a J.Ariolla e R.Martufi, propone un’area Euro/Afro/Mediterranea finalmente sganciata dalle catene dell’Unione Europea. Al centro della discussione arricchita dal volume sono infatti quei paesi definiti dall’UE come “maiali grassi ed ingordi”, cioè Italia, Spagna, Portogallo e Grecia, che non sono riusciti a controllare i propri conti pubblici e i paesi nord-africani mediterranei.

La proposta di un’Area Euro-Afro-Mediterranea (AR.E.A Medit) si affianca a quella dell’ALBA invocando “l’autodeterminazione di quei popoli che sono direttamente colpiti dal rafforzamento dell’Unione Europea”, basandosi sull’assunto che sia pura retorica “parlare in unità della classe operaia europea. Oggi il proletario italiano, quello portoghese, lo spagnolo, il greco ed anche il tunisino, l’algerino, l’egiziano e il marocchino, hanno interessi e condizioni di vita completamente differenti da quelle del lavoratore tedesco, svedese olandese, belga, britannico, che guadagnano un minimo salariale al mese relativamente molto più alto dei lavoratori dei PIIGS, e possono vantare condizioni di vita estremamente più stabili e di benessere completamente differenti dalle nostre”.

L’Unione Europea viaggia chiaramente a due velocità molto diverse, e per questo diventa indispensabile infrangere la “gabbia” che rappresenta, cioè sistema che ha provocato l’espulsione della sovranità democratica e popolare, la distruzione dello stato sociale, la privatizzazione dei servizi e distrutto il diritto al lavoro.
Il desiderio di cambiare le sorti dell’UE, basandole sulla libera concorrenza di mercato, è già stato minato alla radice con la famosa introduzione del pareggio di bilancio, che impedisce di realizzare politiche economiche espansive, dirette più al bene pubblico che al profitto.
La tragedia del crollo del Ponte Morandi, questo agosto a Genova, è dimostrazione della catastrofe prodotta dalle privatizzazioni, dismissioni, esternalizzazioni e depauperamento del patrimonio industriale ed infrastrutturale italiano che hanno provocato deregolamentazione del lavoro e dei diritti ma anche un peggioramento dei servizi pubblici ed essenziali.
La causa scatenante è stata la congiuntura politica che ha favorito la spoliazione, ridimensionamento e declassamento dell’economia del nostro paese svalorizzandone la forza lavoro.

Uscire dall’Euro può essere una soluzione quindi più politica che economica, non tornando indietro alle monete nazionali ma istituendone una nuova tra economie più simili tra loro, in modo da liberarsi dal dominio franco-tedesco: “la frammentazione monetaria dell’Euro-zona è una possibilità reale, ciò che non lo è, è tornare a monete nazionali che lungi dal rappresentare una sovranità (monetaria) recuperata, non potrebbero non essere che simboli monetari di territori politicamente ed economicamente frammentati e dipendenti dall’area di influenza del capitale europeo. Se i paesi della periferia europea vogliono riprendere il controllo sull’attività produttiva, lo potranno fare solo in modo congiunto e mediante un processo di rottura con il modello delle finanze private e con lo spazio monetario asimmetrico di adesso. […] Uscire dall’euro proponendo una nuova moneta per Paesi con strutture produttive più o meno simili sarebbe l’unica alternativa realizzabile, che permetterebbe sia di mantenere un margine di negoziazione con le istituzioni comunitarie e con la Banca Centrale Europea sia di creare un nuovo blocco politico istituzionale capace di realizzare un modello di accumulazione favorevole ai lavoratori”

La proposta offerta da “Pigs” è quindi quella di un’area “Euro-Afro-Mediterranea” basata sull’autodeterminazione dei popoli che contrasti le immortali tendenze imperialistiche e neocoloniali che producono migliaia di migranti. Una federazione simile all’ALBA latino americana, che porti nell’area mediterranea quei valori utili per dimostrare che esiste un’alternativa al sordo oblio che rimbomba nella gabbia dell’Unione Europea.

http://www.farodiroma.it/pigs-la-vendetta-dei-maiali-dallesempio-dellalba-sorge-il-sogno-di-unarea-euro-afro-mediterranea-alternativa-alla-gabbia-dellue/

 

“Contate su di noi per difendere le grandi cause del mondo per il futuro del mondo multipolare”. Con queste parole si è concluso l’intervento che il presidente del Venezuela, Nicolàs Maduro, ha tenuto a braccio alla 73ma sessione dell’Assemblea generale dell’Onu, in corso a New York. Discorso che abbiamo tradotto per intero. Una lettura interessante, perché affronta i temi dell’indipendenza, sovranità e dignità. E parla di socialismo, ovvero di potere del popolo sovrano. Sfidando le minacce ricevute, sia da componenti dell’amministrazione Trump che dallo stesso Trump nonché dalle destre reazionarie di Miami – che gli hanno già organizzato l’attentato con i droni all’esplosivo del 4 agosto – Maduro si è recato a sorpresa all’Onu, dove già si trovava la delegazione venezuelana.

Nella sua voce, come in quella del presidente cubano Diaz Canel e di Evo Morales, presidente della Bolivia, si rinnova il messaggio dei grandi dirigenti latinoamericani scomparsi: da Che Guevara a Fidel Castro. Si rinnova – come ha sottolineato Maduro – la resistenza di Nelson Mandela, omaggiato dall’Onu in questa 73ma sessione.
Il presidente venezuelano, anche in qualità di presidente pro-tempore della Mnoal, il Vertice dei Non Allineati che costituisce la seconda organizzazione internazionale per grandezza dopo l’Onu, ha sostenuto le ragioni del socialismo all’interno del nuovo mondo multipolare. Ha difeso con forza i diritti dei palestinesi. Ha respinto il criminale blocco economico contro Cuba, che si ripete oggi contro il popolo venezuelano. Per l’occasione, ha anche reiterato la disponibilità a incontrarsi con Donald Trump per discutere di tutto, nonostante le “divergenze abissali” che esistono tra i due modelli di paese.

Ma, intanto, i soliti senatori nordamericani Marco Rubio, Bille Nelson, John Cornyn, David Purdue, Dick Durbin e Ben Cardin, si sono accodati alla proposta del solito Bob Menendez che manovra per far cadere il governo bolivariano. Il gruppo ha presentato una proposta di legge per “aumentare la pressione politica, economica e diplomatica contro il governo Maduro, e per portare “aiuto umanitario” all’immigrazione venezuelana.
Il progetto prevede, oltre a un ulteriore aumento delle sanzioni, un finanziamento di oltre 40 milioni di dollari per “Aiuto umanitario, Ricostruzione e Stato di diritto in Venezuela per il 2018”. La proposta di legge chiede al Dipartimento di Stato Usa di organizzare “una conferenza dei donatori per coordinare il finanziamento internazionale, e garantisce l’appoggio per dare slancio agli sforzi nell’Organizzazione delle Nazioni Unite”. L’iniziativa contempla il riconoscimento e l’appoggio del Parlamento venezuelano (governato dalle destre, lo stesso che ha votato a maggioranza per l’intervento armato nel paese) come unica autorità costituita in Venezuela, e del famigerato gruppo di Lima, che sta spingendo per deferire Maduro alla Corte Penale Internazionale. Governi che premono perché, all’interno del Consiglio per i Diritti umani dell’Onu, che si riunisce oggi, si voti una risoluzione sulla “crisi umanitaria” in Venezuela, presentata da 13 Stati membri e da altri 29 osservatori. L’arroganza imperialista contro il diritto dei popoli a decidere del proprio destino.

Geraldina Colotti

Nicolas Maduro Moros, discorso alla 73ma sessione dell’Assemblea Onu a New York

Ambasciatori, ambasciatrici, capi delegazione dei paesi rappresentati all’Onu, signora presidenta dell’Assemblea generale Maria Fernanda Espinosa, voglio trasmetterle le congratulazioni della delegazione della Repubblica Bolivariana del Venezuela, del nostro governo per aver assunto la presidenza di questa 73ma sessione, prima donna latinoamericana ad assumere la presidenza di un periodo di sessione. 73 periodi di sessione. Siamo stati convocati per lavorare, per trattare in questo periodo di sessione un tema importante, vitale che è stato così riassunto: “fare in modo che le Nazioni Unite siano pertinenti per tutte le leadership mondiali e che si arrivi a responsabilità condivise per realizzare società pacifiche, giuste e sostenibili”. Fare in modo che le Nazioni Unite siano pertinenti per tutti. Un obiettivo nobile, alto, nel quadro di quel che le Nazioni Unite devono costruire in questo secolo 21. Un secolo di grandi opportunità. Siamo sicuri per porterà alla realizzazione di processi di liberazione umana, politica dei popoli, che prima o poi avranno un grandi impatto sull’Organizzazione delle Nazioni Unite. Questa Organizzazione è nata al calore della fine della Seconda guerra mondiale, nel 1945, e la sua configurazione nel resto del XX secolo ha rispecchiato i conflitti e le forme di azione post-guerra negli anni del mondo diviso in due blocchi, e poi, dopo la caduta dell’Unione Sovietica, negli anni ’90, quelle di un mondo unipolare. Sempre i rapporti di forza nell’andamento del mondo hanno influito direttamente sull’Organizzazione delle Nazioni Unite che, per essere “pertinente” deve esprimere l’anelito, il modo di essere, il pensiero, la speranza della maggioranza del mondo. Per questo, il Venezuela è venuto qui a dire la sua verità: quella di un popolo indomito, eroico, rivoluzionario, la verità di una patria che non ha voluto arrendersi nel corso della storia, all’ingiustizia, agli imperi ieri schiavisti e coloniali, oggi, ugualmente schiavisti e neocoloniali. Trasmetto qui la voce, la storia di un popolo che ha alzato la testa con la resistenza eroica degli aborigeni, dei popoli originari che hanno resistito all’oppressione coloniale dei secoli passati e che è stato la culla del più eminente Libertador fra i Liberatori che 200 anni fa hanno realizzato la promessa eroica di fondare un continente, in sogno: la Repubblica indipendente di questa regione del mondo. Un popolo storico, quello del Venezuela, culla e scuola al contempo di valori repubblicani, di ribellione, culla e scuola di dignità, valori come l’uguaglianza e l’ostinata ricerca di indipendenza e sovranità portata avanti nel corso dei secoli. Siamo qui, nel quadro dell’offensiva più infame e insidiosa degli ultimi anni. Siamo un paese perseguitato e aggredito. Ieri il presidente degli Stati Uniti, da questa tribuna, si è scagliato una volta di più contro il nobile popolo del Venezuela, inalberando di nuovo la Dottrina Monroe, ha riproposto un preteso ruolo di gendarme del mondo. Qui, in questo stesso luogo, il presidente della nazione più potente del mondo, ha inalberato nuovamente la Dottrina Monroe che aveva detto: “L’America agli americani”, che aveva stabilito che il resto dell’America dovesse appartenere, in quanto cortile di casa, agli interessi delle élites che dominavano da Washington quella nazione, antica colonia dell’impero britannico.
Perché questo attacco del potere statunitense? E’ un conflitto storico, quello tra la dottrina imperiale interventista di Monroe e la dottrina indipendentista di ribellione, dignità dei nostri Libertadores. Un vecchio conflitto, una vecchia contraddizione con una dottrina imperiale che pretende dominare la nostra regione: nel secolo 19 ha preteso dominare solo nostra regione, nel ventesimo secolo, il mondo, nel 21 secolo pretende di continuare a ricattare, a ordinare il mondo come fosse una sua proprietà. Nella regione, la contraddizione tra la bandiera libertaria che proponeva un mondo di equilibrio, quella di Simon Bolivar e dei Libertadores, e la bandiera interventista, ha dunque già 200 anni. Oggi, il Venezuela è vittima di un’aggressione permanente sul piano economico, politico, diplomatico e mediatico da parte di chi governa gli Stati Uniti e che pretende inalberare di nuovo la Dottrina Monroe per giustificare dal punto di vista ideologico politico diplomatico l’attacco contro la nostra amata patria. Perché accade tutto questo? In primo luogo perché il Venezuela ha costruito un progetto autonomo di rivoluzione democratica, di rivendicazione sociale, di costruzione di un proprio modello di società, basato sulle proprie radici storiche, sull’identità dei nostri paesi, nella cultura tipica della regione latinoamericana. Da venti anni vogliono bloccare un processo di emancipazione che nasce dalla storia della nostra regione. In secondo luogo, all’interno di ragioni geopolitiche, c’è che il Venezuela è la nazione del mondo che possiede la maggior riserva di petrolio certificata a livello internazionale. Venezuela fondatrice della OPEC, con 100 anni di esperienza petrolifera, ha certificato che possiede importanti ricchezze naturali minerarie. Sta certificando quella che potrebbe essere considerata in base agli standard internazionali la prima riserva di oro del mondo.

Oggi certifica la quarta riserva di gas del mondo. Importanti ricchezze naturali, importanti ragioni geopolitiche che hanno portato le oligarchie del continente che dominano a partire da Washington a questa aggressione al Venezuela. Oggi il Venezuela è vittima di una aggressione permanente. Sul piano economico, nei due ultimi anni è stata sottoposta a una serie di persecuzioni illegali, di persecuzioni economiche, di blocco economico che ci ha impedito l’uso della moneta internazionale, il dollaro, mediante l’uso della posizione di dominio da parte delle autorità della Segreteria del Tesoro degli Stati Uniti. Oggi il Venezuela non può negoziare nessuna transazione internazionale attraverso del dollaro. Sa il mondo che il Venezuela è perseguitato dal punto di vista economico, monetario a livello internazionale? Oggi il Venezuela è sottoposto a un insieme di sanzioni economiche illegali, unilaterali. Ieri il presidente degli Stati uniti, da questa stessa tribuna, ha annunciato nuove sanzioni: sanzioni economiche e finanziarie annunciate proprio qui, nel santuario della legalità internazionale. Perché le sanzioni unilaterali imposte con il favore della moneta e dei meccanismi finanziari sono illegali dal punto di vista del diritto internazionale. Il Venezuela è sottoposto a un’aggressione mediatica. Si è cercato di costruire un espediente per giustificare l’intervento internazionale, oggi sappiamo che si cerca l’intervento militare, il controllo del nostro paese. Si è costruito un espediente contro il nostro paese per imporre l’esistenza di una crisi umanitaria, usando il concetto delle Nazioni Unite per giustificare che una coalizione di paesi guidata dal governo degli Stati Uniti e dai paesi satelliti metta le mani sul nostro paese. Si è fabbricata una crisi migratoria che si sta smontando da sola… che si sta smontando da sola. La vera crisi migratoria che c’è nel mondo dimostra quanto siamo penalizzati noi paesi del sud. La vera crisi migratoria che c’è in America centrale, in Messico, in America latina e che ha provocato l’annuncio di un muro di contenzione contro il nostro popolo, un muro di divisione tra il nostro popolo. Non si vuole parlare, si parla con lingua doppia della situazione reale dei migranti latinoamericani e caraibici perseguitati alla frontiera con il Messico, delle famiglie separate, dei bambini sequestrati, e non si vogliono dare risposte, non si vuole dare visibilità a tutto questo. Non si vuole dare visibilità alla gravità della crisi migratoria provocata dalla distruzione della Libia da parte della Nato che ha generato la migrazione di milioni di fratelli africani e del Medioriente in fuga per via della guerra in Siria.

Si è voluto concentrare una campagna mediatica mondiale su una presunta crisi migratoria in Venezuela per giustificare da vari anni un intervento umanitario. E’ lo stesso schema utilizzato per le armi di distruzione di massa in Iraq, lo stesso schema che ha giustificato l’intervento militare in altri paesi. Ora, per effetto di una brutale campagna di guerra psicologica, il Venezuela è anche vittima di un’aggressione diplomatica. Ieri siamo stati testimoni, cari fratelli e sorelle dei governi del mondo, di come il presidente degli Stati Uniti ha minacciato di voler ritirare l’aiuto diretto degli Stati Uniti o il blocco del sistema di aiuto internazionale per i governi e i popoli che lo necessitano. Abbiamo ascoltato i discorsi di vari governi che chiedono miglior accesso al meccanismo degli aiuti allo sviluppo a cui i nostri popoli hanno diritto. Il presidente degli Stati Uniti ieri da questa tribuna ha minacciato i governi del mondo che qualora non si sottomettano alle politiche degli Stati Uniti, ne sopporteranno le conseguenze. Contro il Venezuela è in atto una feroce offensiva diplomatica in tutti gli organismi del sistema delle Nazioni Unite appoggiata da governi satelliti che in ginocchio calpestano l’onore dei popoli che dicono di rappresentare. Il Venezuela è stato sottoposto a un’aggressione permanente in politica. Lo scorso 8 settembre, il quotidiano New York Times ha pubblicato le prove della partecipazione di funzionari della Casa Bianca e del governo degli Stati Uniti a riunioni per favorire un colpo di stato militare e provocare un cambiamento di governo, “di regime” in Venezuela. Informazioni pubblicate del Nyt, diffuse anche dalla rivista Times e dal Washington Post e dalla stampa mondiale che ha confermato l’aggressione permanente di settori del governo USA contro una democrazia costituzionale forte, una democrazia con il popolo com’è quella venezuelana. Già avevamo denunciato a suo tempo i tentativi di violenza contro la costituzione, i tentativi di disturbi, di golpe preteso di carattere militare contro il governo rivoluzionario e democratico che, per volontà e voto popolare, presiedo in quanto presidente della Repubblica bolivariana del Venezuela. Dopo il fallimento annunciato e descritto dal NYT di questi atti di violenza a carattere militare, già il Nyt dà dettagli di come funzionari degli Usa e di Colombia, appoggiati dal governo della Colombia e da esponenti delle istituzioni colombiane, hanno offerto appoggio a questo tentativo di “cambio di regime”. Può il sistema delle Nazioni Unite, può l’umanità, chiedo ai miei fratelli dell’America Latina e dei Caraibi, si possono accettare questi metodi che tanto danno hanno fatto alla regione durante tutto il ventesimo secolo? Quanti colpi di stato, quante dittature sono state imposte durante il lungo e oscuro secolo scorso latinoamericano e caraibico? E chi ne ha tratto vantaggio, i popoli? Quali interessi hanno rappresentato?Quelli delle multinazionali, gli interessi antipopolari. I nostri popoli sono stati costretti a sopportare lunghe dittature come quella di Augusto Pinochet in Cile per gli interessi statunitensi e per effetto della Dottrina Monroe di negare il diritto che ci siamo guadagnati, il diritto di governarci nella forma che vogliamo e in base alle nostre specifiche forme politiche economiche della regione.

Per questo ho detto che sono venuto qui a portare la verità del Venezuela, di un popolo che lotta in Venezuela. Il Venezuela è nel mirino di una campagna politica mediatica che sembra non avere fine. Per questo abbiamo portato la verità della nostra patria: dopo il fallimento dell’intento di “cambio di regime” illegale, criminale, dopo la elezione democratica presidenziale del passato 20 di maggio dove questo servitore che sta qui, Nicolas Maduro Moros, ha ottenuto il 68% dei voti popolari durante libere elezioni. Si è trattato dell’elezione n. 24 in 19 anni, quella per la presidenza del 20 di maggio. L’elezione n. 24 nella quale la forza rivoluzionaria bolivariana, con diversi livelli di approvazione, ha vinto 22 elezioni contro le forze opposizion. Dopo il fallimento del tentativo di destabilizzazione, dopo il fallimento della candidatura e della tattica elettorale appoggiata da Washington, con l’immenso appoggio che il popolo ci ha dato, il 4 agosto sono stato vittima di un attentato con i droni che avrebbe dovuto uccidermi durante un atto militare in una via principale della capitale Caracas, e che se fosse andato a segno per com’era stato concepito e per com’è di dominio pubblico, avrebbe fatto un massacro, uccidendo tutti gli alti comandi militari della nostra nazione. Quello stesso giorno, gli autori materiali, i terroristi che organizzarono il primo attacco con i droni che si conosca nella storia della violenza terrorista a livello mondiale, furono catturati dagli organi di sicurezza. Tutti i 28 autori materiali catturati in diversi procedimenti investigativi, tutti rei confessi, e tutte le indagini che ho reso pubbliche indicano che l’attentato terrorista del 4 agosto è stato preparato, finanziato e pianificato in territorio statunitense.

Ho fornito per la via diplomatica le prove, i nomi degli autori intellettuali, dei finanziatori, degli organizzatori di questo grave attentato terrorista del 4 di agosto. Tutte le indagini indicano che gli autori dell’attentato furono allenati per mesi in Colombia con l’appoggio delle autorità colombiane. L’ultima indagine e gli ultimi arrestati hanno rivelato che alcuni funzionari della diplomazia del Cile e della Colombia e del Messico sono stati denunciati dagli autori materiali come persone coinvolte nell’aiuto alla fuga degli autori materiali dopo l’attacco terrorista. Chiedo al sistema delle Nazioni Unite la nomina di un delegato speciale della Segreteria generale perché si avvii una inchiesta indipendente di carattere internazionale sulle implicazioni e i responsabili dell’attentato terrorista del 4 di agosto. Le porte del nostro paese sono aperte, il nostro sistema di giustizia è a disposizione perché vengano stabilite le responsabilità dirette nell’aggressione più grave della nostra storia politica. Volevano creare il caos, decapitare lo Stato per giustificare la violenza di uno scontro interno e l’attivazione di meccanismi esterni al sistema di multilateralità dell’Onu, quelli di un intervento militare come è già accaduto con altri paesi in passato. Il Venezuela propone ufficialmente, signor ambasciatore, signor ministro degli Esteri, l’appoggio per un’inchiesta internazionale indipendente che stabilisca la verità su quei fatti.

Ho detto al governo degli Stati Uniti, che ha negato la sua partecipazione in questo attentato, che risponda all’appello che ho rivolto affinché l’FBI, con professionisti e scienziati di alto livello, si incorpori a questa indagine, aiuti la giustizia venezuelana a stabilire la verità, nient’altro che la verità. Arrivando a New York verso sera, ho saputo che alcuni giornalisti hanno chiesto al presidente Donald Trump se era disposto a riunirsi con Maduro – così mi chiamano da quelle parti – con Nicolas Maduro, con il presidente del Venezuela. Pare che il presidente Trump abbia detto che se questo avesse aiutato al Venezuela, lui era disponibile. Io da questa tribuna, gli dico, lo ripeto: nonostante le immense differenze storiche, ideologiche, sociali – io sono un operaio, un autista del metro, un uomo del popolo, non un magnate multimilionario – nonostante le differenze abissali, il presidente del Venezuela, Nicolas Maduro Moros, io, sarei disposto a stringere la mano del presidente degli Stati uniti e a dialogare sugli affari, sulle differenze bilaterali della nostra regione. Il Venezuela è un paese di tradizioni pacifiche, amichevoli. Non odiamo gli Stati Uniti, al contrario, ne apprezziamo la cultura, l’arte, la società. Differiamo dai concetti imperiali del potere politico che hanno preso piede fin dalla fondazione di quella nazione. Fu il nostro Libertador Simon Bolivar a dire, nel 1826, quasi come in una profezia: Gli Stati uniti del Nordamerica sembrano destinati dalla provvidenza a piagare l’America di fame e di miseria in nome della libertà. Simon Bolivar, 1826. Una visione profetica. Difficile anticipare già in quei tempi quel che sarebbe successo nel ventesimo secolo con tanta preveggenza. Presidente Trump, abbiamo differenze, certo che le abbiamo, ma sono coloro che hanno differenze che devono dialogare e devono mettere sul tavolo la loro capacità di dialogo. Lei ha detto di essere disposto ad aiutare il Venezuela. Bene, io sono disposto a parlare senza limitazioni su tutti i temi, con umiltà, franchezza, sincerità.

Dalla presidenza del Vertice dei Paesi Non Allineati, il Venezuela inalbera la bandiera del dialogo fra le civiltà. Promuove e pratica il dialogo politico nella soluzione conflitti, col dialogo e con l’intesa, con l’uso pacifico della politica e non della forza. Il Venezuela ha una esperienza importante in organismi come la OPEC per ricomporre situazioni di divergenza e costruire consenso e accordo. Recentemente abbiamo avuto in Algeria una riunione, una straordinaria riunione dei rappresentanti del Comitato di Monitoraggio della OPEC, di cui formiamo parte e a cui partecipano i 24 stati che sono i principali produttori di petrolio del mondo, dove ci sono differenze culturali, politiche, geostrategiche, geopolitiche. E abbiamo ottenuto il consenso, arrivando a parlare con una sola voce: per stabilizzare il mercato petrolifero con un prezzo giusto, stabile, ragionevole. Crediamo nel dialogo politico, come forma di canalizzare soluzioni, di risolvere conflitti. Si è voluto demonizzare sempre la rivoluzione bolivariana con una campagna brutale mai vista prima. Prima contro il Comandante Hugo Chavez Frias, fondatore della nostra rivoluzione, Comandante eterno per il cuore dei venezuelani, e poi contro questo umile uomo che sta qui in piedi per portare la voce del popolo che appoggia la sua azione. Ratifico la volontà di dialogo politico nazionale e internazionale. So che ci sono governi in questa sala che sono interessati alla pace con sovranità indipendenza e giustizia in Venezuela: apro le braccia per tutti quelli che ci vogliono aiutare, dall’Asia all’Europa, all’Africa rispettando la sovranità del nostro paese, senza intervenire negli affari interni del Venezuela, affinché ci appoggino, ci accompagnino in processo di dialogo per la pace, per la democrazia per la giustizia, per il futuro per la prosperità del Venezuela che è una nazione nobile che si merita la pace, si merita il futuro, il più grande.

Portiamo una buona notizia da un paese che non si è arreso e non lo farà, buona notizia da una nazione che consolida la sua democrazia che sta rafforzando il potere del suo popolo, buona notizia da un paese che costruisce il proprio modello, il suo stato di benessere sociale con una formula nuova per proteggere i suoi anziani, i suoi pensionati, i suoi bambini, le donne, i suoi giovani, i settori più bisognosi, la classe operaia. Buona notizia portiamo dallo sforzo di recupero economico, attivato nel mese di agosto. Un programma di recupero economico, di crescita, per una economia diversificata, di crescita sostenibile e di prosperità. Verso un modello sociale di nuovo tipo. Crediamo in un altro mondo, la nostra generazione ha visto passare e andarsene il mondo diviso in due blocchi, la cosiddetta guerra fredda che alcuni vogliono riportare nell’attacco alla Cina, alla Russia e a paesi modesti come il Venezuela. Riattivare una lotta contro paesi come Russia e Cina è un controsenso rispetto a quella che dovrebbe essere una politica umana, che riconosca il sorgere di altri poli, di poteri nuovi e la necessità di costruire un mondo multipolare. Il Venezuela è un paese che si batte e si impegna per la costruzione di un mondo multipolare, rispettando gli spazi, la cultura, le religioni, le idiosincrasie, le identità e il modo di essere in politica, in economia. Non c’è un solo modello. Non possiamo permettere che ci impongano un modello economico unico, un pensiero unico, non possiamo permettere che ci impongano un modello culturale unico, un modello politico unico. Ci si vuole uniformare in un solo modello. No, rivendichiamo la diversità culturale, religiosa, politica dell’umanità, di questo mondo e per questo approfondiamo il sorgere di questo mondo dal Movimento dei Paesi Non Allineati, la nascita di un mondo di giustizia. Assumiamo e dichiariamo per questo la nostra solidarietà con il popolo arabo di Palestina. La giustizia in Palestina dovrà arrivare per far rispettare i confini del suo territorio stabiliti dall’Onu nel 1967. Innalziamo, noi, la bandiera del popolo palestinese. Appoggiamo la risoluzione delle Nazioni Unite perché cessi il blocco criminale contro il popolo di Cuba che ora si pretende applicare al Venezuela. Basta con questi metodi anacronistici che si continuano ad applicare contro il popolo di Cuba e ora si pretende applicare contro altri popoli come il popolo venezuelano. Per questo alziamo entrambe le mani per votare risoluzione delle Nazioni Unite che si darà nei prossimi giorni per rifiutare il bloqueo e la persecuzione economica contro Cuba ed esigere la sua fine immediata.

E’ un mondo da costruire e da fare, 200 anni fa la nostra regione era piagata da colonie e da schiavitù, da ingiustizia. Fino a 200 anni fa, combattevamo per la libertà, oggi nel secolo 21 è arrivato il momento, la opportunità. Senza dubbio, dalla Repubblica bolivariana del Venezuela, dall’esempio e dalle idee rivoluzionarie di Simon Bolivar, dall’esempio dall’eredità e dalla voce di Chavez che risuona ancora qui esigendo giustizia giustizia e giustizia per il mondo, esigendo che cessino le pratiche imperiali, la fine delle minacce e dell’estorsione contro i popoli, oggi possiamo dire che abbiamo passato 20 anni in rivoluzione, gli ultimi tre più duri per costanti persecuzioni, politiche, finanziarie. Ma posso dirlo oggi, 26 settembre 2018, siamo più forti che mai. Abbiamo saputo respingere tutte persecuzioni e oggi il Venezuela è più forte che mai. Abbiamo tirato fuori la forza dalla nostra storia per costruire il nostro modello di rivoluzione socialista del secolo 21, per una nuova indipendenza, giustizia, dignità: il nostro modello. Due giorni fa siamo stati testimoni dell’omaggio a Mandela. Parlare di Mandela è parlare di ribellione. Si è cercato di divulgare l’immagine di un Mandela stordito, che non ha lottato, ma Mandela è coraggio, ribellione contro l’ingiustizia è sfida agli oppressori. Ci sentiamo continuatori dell’eredità di Mandela e dei grandi leader africani che hanno lottato per la libertà e la giustizia contro il razzismo e il colonialismo in tutte le sue forme. Vediamo nell’omaggio a Nelson Mandela quanto tutto questo è cambiato nel mondo. Appena trent’anni fa, Mandela era considerato un terrorista dal governo nordamericano, fino a pochi anni fa era nella lista dei sanzionati, vi dice qualcosa, no? Mandela il terrorista, il sanzionato, il perseguitato, l’abbandonato, e come oggi le cose sono cambiate invece nel mondo? Oggi è una bandiera che abbracciamo con amore e convinzione, è un simbolo di quel che è possibile fare se la ribellione, la lotta per la giustizia sono capaci di impadronirsi dei cuori e delle menti nobili dei popoli. Ho fiducia nel futuro dell’umanità, nel destino della mia patria, nel destino comune di questa comunità che è l’ONU, e vi dico, dopo essere sopravvissuto a colpi di stato e attentati, che confido nell’essere umano, nel futuro umanità.

Per questo diciamo: confidiamo negli ideali nobili di un popolo che, come quello venezuelano, non si arrende e non si renderà. Molte grazie, cari compatrioti del mondo. Contate su di noi per difendere le grandi cause del mondo per il futuro del mondo multipolare.

Nicolas Maduro

5 ottobre 2018 alla Villetta per Cuba presentazione del libro Soldati delle Idee di Luciano Vasapollo e programma delle prossime attività.

“Soldati delle idee” è il titolo dell’ultimo libro di Luciano Vasapollo. Lo presenteremo e ne discuteremo insieme alla Villetta per Cuba il giorno 5 OTTOBRE alle h. 17:00 alle h. 17:00.

Più passa il tempo e più la riflessione di Luciano Vasapollo e di Rita Martufi diventa vivace e appassionata. Interpreti consapevoli di un metodo materialista essi in primo luogo aggiornano i temi più rilevanti su cui si sono concentrati nel passato al fine di verificare le ipotesi fatte ma anche di registrare quei cambiamenti che ci costringono almeno in parte a mutare rotta. 

Vogliamo dare uno sguardo a tre testi editi in questo periodo dalla casa editrice Efesto.

Il primo è l’aggiornamento e l’ulteriore elaborazione a partire da un testo del 2000 “Comunicazione deviante” allora edito da Media Print con la prefazione del compianto Alessandro Mazzone. In questo studio informazione e comunicazione assumono un ruolo dominante sia sul terreno della produzione e dell’accumulazione che su quello del consumo trasformando l’impresa in fabbrica sociale generalizzata. Alessandro Mazzone, nella prefazione al testo afferma “Questo libro descrive un’invasione … una invasione che non ha bisogno di varcare i confini di uno Stato … che non agisce sugli individui, ma essenzialmente dentro di essi”. Vasapollo esaminava gli effetti della comunicazione deviata e deviante sul corpo sociale e intravedeva una sorta di totalitarismo della comunicazione strategica che vanificava i tentativi di democratizzare i processi di decisione politica. 

A distanza di 18 anni il tema viene ripreso: la fase attuale di mondializzazione dello sviluppo capitalistico vede l’uso sempre più intensivo di scienza e tecnologia nella produzione e un ruolo sempre più importante della conoscenza e della comunicazione all’interno del processo produttivo. All’interno di quest’ultimo si sperimentano nuove modalità per ammaestrare il gorilla ovvero il lavoratore (riprendendo la terminologia gramsciana a sua volta mutuata da Taylor) rendendolo ideologicamente subalterno alla fabbrica sociale generalizzata, convincendolo ad esempio a non percepire salario al fine però di rendere più affidabile il curriculum. Vasapollo nel testo rielabora il magistero gramsciano, ma in questo volume aggiornato inserisce un prologo dove il confronto è con la teoria del lavoro mentale elaborata recentemente da Mino Carchedi.

Da questo confronto emerge la necessità di non appiattirsi sulla cosiddetta “rivoluzione tecnico-scientifica” e Vasapollo dice “… da un punto di vista marxista prodondi cambiamenti sociali non possono prendere il via solo a partire dalle rivoluzioni tecnologiche; si rendono necessarie trasformazioni nell’odine delle relazioni di proprietà perché si produca un cambiamento sociale che modifichi la qualità del sistema di relazioni di produzione oggi dominante”. Nelle conclusioni, non a caso intitolate “Attenti ai gorilla !!!”, Luciano Vasapollo conclude “La comunicazione deviante come invasione della cultura di impresa nel sociale … si comprende solo come parte organica di un tutto sociale corrispondente alla nuova configurazione del modo di produzione capitalistico nei paesi imperialisti”. 

Il secondo testo a cui si voleva accennare è (sempre delle edizioni Efesto) “Piano, mercato e problemi della transizione” che si potrebbe considerare per certti versi l’ideale continuazione de “Il torocoro e l’uragano. La pianificazione socio-economica come risposta alla crisi globale, pubblicato da Zambon. In quest’ultimo libro Vasapollo tenta di evidenziare come l’adesione eccessiva al modello di pianificazione sovietico abbia causato una perdita della capacità di creazione, sviluppo e messa a fuoco critica del pensiero marxista. La natura sistemica della crisi del 2007 ci riporta invece a considerare la possibilità della pianificazione. Questa possibilità però è condizionata dalla capacità eventuale della tradizione (o del programma di ricerca) comunista di considerarsi un movimento reale che non può prescindere dal corso degli eventi storici.

In questo senso l’approfondimento circa lo sviluppo del modello cubano ma anche quello relativo alla rivoluzione bolivariana può essere d’aiuto a chi voglia riprendere il testimone di questa tradizione. Dice Vasapollo nell’introduzione “Bisogna inquadrare gli attuali processi in corso non in maniera ideologica o con un acritico assenso, ma riconducendoli alla realtà delle cose, che non sono purtroppo un costante e progressivo cammino verso l’ideale comunista ma implicano a volte anche scelte sofferte e sul piano teorico momentanei passi indietro pur mantenendo l’orizzonte strategico della transizione socialista verso il comunismo”. 

In “Piano, mercato e problemi della transizione”  si parte ancora dalla crisi sistemica per sottoporre a critica la scienza economica borghese e la teoria delle transazioni economiche (e del denaro) che la caratterizza. All’interno di questa critica si analizza il ruolo delle banche e si elabora una teoria dell’emissione che, grazie all’evoluzione dei sistemi monetari verso schemi immateriali, si mostra come più adatta della teoria di tipo neoclassico dell’interscambio relativo a descrivere i processi in corso ed a proporre soluzioni razionali ai problemi che si stanno presentando. In quest’ambito s’introduce il tentativo all’interno dell’Alba latino-americana del nuovo sistema bolivariano dei pagamenti internazionali al fine di proteggere le economie nazionali (e dei sistemi regionali) dal disordine monetario internazionale. Vasapollo poi approfondisce il tema della pianificazione ed in particolar modo le sue modalità storico attuative a Cuba, in Venezuela, in Bolivia e in Ecuador. Nell’ultima parte si introduce il ruolo della comunicazione deviante nella fabbrica sociale capitalistica per giungere poi ad una riflessione sul rapporto tra conoscenza ed economia concludendo che “ …solo una formazione politico-culturale complessiva può costituire uno strumento valido per le nuove sfide che il sempre più aspro conflitto capitale-lavoro richiede in Europa”. Vasapollo poi analizza il caso italiano per giungere poi a due ultimi capitoli sulla pianificazione e sulla transizione al socialismo : “Oggi la questione del rapporto tra politica ed economia, e tra piano e mercato, va posta al centro di ogni progetto politico che si propone di porsi sul terreno del superamento del modo di produzione capitalistico”. E ancora “subordinare l’economia alla politica sarebbe una alternativa alla mondializzazione capitalistica esistente”.

Veniamo al terzo testo, quello più pregno di conseguenze politiche immediate e scritto con le integrazioni di molti compagni della Piattaforma Sociale Eurostop.  Si tratta di “Pigs la vendetta dei maiali” (sempre Edizioni Efesto)  ovvero della continuazione de “Il risveglio dei maiali” (Jaca book edizioni, 2011). In quest’ultimo testo si analizza la crisi attuale dell’economia capitalistica mettendola in relazione con la crisi Usa degli anni Settanta e con la presunta crisi europea del debito pubblico. Viene fatta una critica forte dell’Unione Europea e dell’Euro e anche alle strategie dell’austerity (anche in versioni keynesiane che ancora aleggiano nella sinistra europea).

Si propone, apertamente, la rottura della gabbia dell’Unione Europea, l’uscita dall’Euro e si prospetta la necessità dell’organizzazione di una nuova area monetaria euro-mediterranea ispirata dall’Alba sudamericana. Si tratta di una delle premesse teoriche più consapevoli e sistematiche di cui la costituzione della Piattaforma Sociale Eurostop è - anche se non direttamente - una risultante. Vasapollo afferma verso la fine del testo in coerenza con il percorso sin qui fatto: “La nostra analisi non ha a che fare con una visione immediata di fine del capitalismo per autodistruzione ed una teoria del crollismo. In assenza di un confronto di classe radicale da parte di una forza soggettiva organizzata capace concretamente di una ricerca di soluzioni, il sistema troverà ancora altre modalità attuative per far sopravvivere il modo di produzione capitalistico”. 

Nel testo da poco pubblicato e presentato al convegno di Eurostop a Roma, lo scorso 16 settembre, (un commento a questa presentazione lo troviamo in http://contropiano.org/news/cultura-news/2018/09/19/si-passa-dai-no-alla-proposta-la-vendetta-dei-pigs-0107663) si parte dall’analisi della crisi sistemica e dalla teoria delle emissioni meglio elaborata in “Piano, mercato e problemi della transizione” per elaborare una politica finanziaria che sia alternativa a quella del capitale. Vasapollo dichiara che i paesi della periferia europea hanno bisogno di un sistema monetario e finanziario che sia alternativo all’Euro e alla globalizzazione, essendo poco praticabili e ugualmente classiste le proposte di rigenerazione del capitalismo per mezzo di un nuovo contratto sociale. L’Europa è riformabile, ma l’UE e l’Euro no dal momento che sono il fulcro di una politica imperialista contro la quale bisogna lottare. Per farlo bisogna subordinare l’economia alla politica, perseguire una società che vada oltre il capitale ma dare anche risposte immediate alla barbarie attuale. Si delinea dunque un programma di alternativa di classe guidato da una pianificazione socio-economica che tuteli le economie da una sorta di strozzinaggio monetario.

Questo programma prevede una nuova moneta dell’area Euromediterranea (perché l’Europa si riforma solo se si apre ai popoli al di là del Mediterraneo), una ridenominazione del debito dei cosiddetti Pigs in questa nuova moneta, il rifiuto di una parte del debito, la nazionalizzazione delle banche e il controllo dei capitali. Non esiste una via regia (riformista o angustamente nazionalista) per l’uscita dall’Euro e bene fa Vasapollo a sottolineare che “ … la questione dell’uscita dall’Euro non è da noi concepita in chiave di generica, impropria, strategicamente inadeguata sovranità nazionale anche se sono possibili passaggi tattici di fase, ma ha una dimensione immediatamente di classe …” ed inoltre “se i paesi della periferia europea vogliono prendere il controllo sull’attività produttiva, lo potranno fare solo strategicamente in modo congiunto … ”.

Il testo poi affronta la questione del blocco sociale (che dialetticamente si rapporta a quella dell’uscita) e quella di un nuovo sistema di alleanze globali prima di un appendice che riporta dati statistici utili a comprendere la possibilità (in termini di peso economico) di una Area euro-mediterranea in cui un esito simile a quello dell’attuale UE può essere scongiurato dalla natura di classe della rottura e dalla complementarità produttiva dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo.

Dalla lettura di questi testi possiamo comprendere come la riflessione di Vasapollo/Martufi (e anche della Rete dei Comunisti e di Eurostop come si sta tentando di evidenziare nel progetto formativo che si sta iniziando a sperimentare tra i compagni e su cui torneremo, con più organicità, nei prossimi mesi) si confermi come una continua revisione e una continua messa alla prova delle teorie elaborate in precedenza nel tentativo di applicare la dialettica di continuità e discontinuità (attinta da Engels e Lenin anche dalle scienze della natura) nel campo dell’indagine conoscitiva e della prassi.

di Italo Nobile

Napoli, 23/9/2018

Per tanti anni i pagamenti internazionali si sono effettuati maggiormente mediante il trasferimento di dollari tra le banche private. Nonostante il dollaro non fosse già più ufficialmente oro, e contro l’opinione di molti esperti, continuò ad essere la moneta internazionale di riferimento nonostante avesse perso molto del suo valore, nei suoi peggiori momenti della crisi. Ci sono autori che danno conto di questo deprezzamento verificatosi durante gli anni Settanta, nel contesto della così detta prima crisi del petrolio, poi dell’energia e industriale, e infine economica, con la volontà dei governi Nixon-Ford e Carter di migliorare il saldo commerciale estero statunitense, ripetutamente in rosso dal 1970.

Evoluzione negli ultimi 30 anni delle riserve monetarie globali.

Possiamo vedere come il dollaro abbia lentamente perso il proprio dominio a favore principalmente dell’euro, che dopo un periodo iniziale di espansione ha registrato come tutte le valute una contrazione, dovuta all’inserimento e alla rapida affermazione come moneta di riserva del Renminbi cinese . Con la finanziarizzazione dell’economia, e quindi con la messa a rendita dei profitti e con la compressione del monte salari complessivo, il modello, della cosiddetta golden age, viene a cadere e anzi si inverte il ruolo degli operatori economici. La riduzione del monte salari complessivo nella redistribuzione del PIL ne diminuisce ovviamente la capacità di acquisto e la propensione al risparmio, tramutando l’operatore famiglia, quindi i lavoratori, da risparmiatori creditori a consumatori poveri indebitati, con l’aumento delle mille forme di ricorso al debito per sostenere i consumi anche di prima necessità. Allo stesso tempo, la sempre più evidente redistribuzione del valore aggiunto ai redditi da capitale, e la trasformazione dei profitti in rendite, disincentiva di fatto la propensione all’investimento produttivo.

Da quest’altro grafico si evince inoltre che negli ultimi 40 anni gli Stati Uniti, il Giappone e l’Europa 4 abbiano subito una drastica riduzione del peso dell’industria in percentuale al PIL. Al contrario i Bric, nonostante un punto di flesso tra il 1995 e il 2005, che è comunque superiore alle percentuali degli altri paesi, registrano un notevole aumento.

Possiamo notare come, in Giappone e nell’Europa 4, ovvero i 4 motori industriali dell’Europa (un gruppo di cooperazione interregionale formato da Lombardia, Catalogna, Baden-Wurttemberg e il Rodano Alpi, Fonte: commissione europea), il valore aggiunto dell’industria mantenga un andamento costante con un punto di flesso nel 2008, mentre negli Stati Uniti sia notevolmente più elevato, ma con un punto di flesso maggiore. I Bric invece fanno registrare una crescita esponenziale dal 1988 che risente solo lievemente della crisi (rallenta la crescita infatti, ma non si interrompe come negli altri paesi).

A partire dall’estate 2007, con il connesso crollo del mercato del credito mondiale, abbiamo assistito a un rigenerato interventismo statale in tutti i paesi a capitalismo maturo, indirizzato però non al rilancio della produzione e dell’occupazione a pieno salario e pieni diritti nell’economia reale, ma al salvataggio del sistema bancario e finanziario. Tali operazioni, che puntano a ridare ossigeno al sistema bancario, innalzano pesantemente il deficit fiscale dei paesi centrali, sia per l’entità delle somme impiegate, sia per la diminuzione degli introiti fiscali, dovuta alla decelerazione degli investimenti produttivi causati dalla riduzione del credito alla produzione, che di fatto blocca i processi di crescita dell’accumulazione capitalista.

Evoluzione della composizione totale delle riserve monetarie.

Nel 2010 le riserve mondiali erano composte per il 41,9% da dollari, il 37,4% da euro, il 9,4% da yen e il 11,3% da sterline. Come possiamo notare nel 2015 tutte queste valute subiscono una contrazione dovuta all’inserimento come valuta di riserva mondiale dello Yuan Cinese (Renminbi) .

Se infine si applica la stessa moneta a paesi in cui l’accumulazione del capitale si fonda sull’esportazione e a paesi strutturalmente importatori, la politica monetaria non è in grado di conciliare le priorità di alcuni (che necessitano di una moneta stabile così da avere accumulazione a lungo termine basata sull’esportazione) e di altri (che hanno bisogno di svalutazioni periodiche per facilitare l’aggiustamento interno). Quindi, la politica applicata difenderà gli interessi dei più forti, in questo caso dei paesi esportatori dell’Europa centrale (Germania e i suoi satelliti occidentali: Finlandia, Olanda, Austria e Belgio), rispetto a quelli dei paesi deboli della periferia mediterranea (Portogallo, Italia e Grecia e Spagna, PIGS

In questo grafico possiamo notare come attualmente la maggior parte dei paesi dell’Europa occidentale abbia un indice di produzione industriale al di sotto della media europea. Solo la Germania si trova nettamente al di sopra, mentre la Francia, pur avendo un valore minore, si avvicina alla media. Spagna, Italia e Grecia si trovano rispettivamente agli ultimi 3 posti.

La soggezione delle economie dell’Europa meridionale e orientale è la condizione necessaria per sviluppare questo ruolo nell’accumulazione globale. La nuova amministrazione nordamericana, che in questo non differisce dalle precedenti, è molto consapevole della sfida di cercare di mantenere una posizione di dominio, che ormai non si riflette più nelle proprie strutture produttive. Il neoliberismo è in un certo senso una procedura per cercare di prolungare nel tempo quella posizione di vantaggio ereditata dalla seconda fase della rivoluzione industriale, innanzitutto attraverso il controllo globale della finanza e della valuta mondiale, per ottenere la cattura di rendite finanziarie che compensando diminuzione dei profitti degli Stati Uniti sotto forma di eccedenze produttive.

La Germania ha trasformato la crisi bancaria in una crisi del debito pubblico, costringendo a utilizzare le tasse pubbliche per ripulire e riossigenare il sistema finanziario privato. Si è così assicurata che le entrate pubbliche delle tasse, in primis quelle gravanti sul fattore lavoro, pagassero i debiti commerciali con le banche tedesche, a costo di ridurre i servizi pubblici, le pensioni, l’occupazione e gli investimenti nei paesi del Sud Europa .Si tratta in effetti di una gigantesca operazione a favore di banche, sistema finanziario e imprese, per lo più medie e grandi, per trasformare il debito privato in debito pubblico; si porta così la crisi del capitale in una direzione più pesante che è quella relativa alla crisi economica e politica degli Stati sovrani sotto forma di crisi del debito pubblico.

Uno scenario che permette al mercato di richiedere ai governi la “socializzazione” delle perdite del sistema bancario, usando poi lo Stato per appropriarsi del denaro ottenuto dalle imposte e dalle tasse pagate dai lavoratori.

Si può quindi dire che l’unificazione della politica monetaria per la messa in marcia dell’Euro sia servita a rafforzare il modello esportatore dei paesi centrali dell’Eurozona e a debilitare la posizione commerciale e subordinare la dinamica d’accumulazione nei paesi periferici del Mediterraneo alla divisione del lavoro imposta dal centro. Ne segue che i PIGS diventano sempre più delle riserve agricole e di servizi turistici e residenziali sottomesse a processi di deindustrializzazione più o meno accelerati.

Si invertono, così, i comportamenti e il ruolo del ciclo espansivo keynesiano.

Paesi come quelli dell’ALBA, perfino la Cina, subiscono gli effetti del disordine contribuendo inavvertitamente e involontariamente ad alimentare il Capitale Fittizio Internazionale (XenoCapitale secondo Autori come Schmitt), fonte inesauribile di speculazione destabilizzante nei mercati internazionali.

Nel 2008, con entrata in vigore nel 2010, è stato creato il SUCRE (Sistema Único de Compensación Regional), che introduce una moneta di conto che consente di realizzare gli scambi all’interno dell’area senza utilizzare il dollaro. Si tratta di una moneta virtuale, che non è previsto circoli in forma fisica, ma solo virtuale. Si tratta di un meccanismo compensatorio per l’integrazione economica regionale, un sistema di pagamento che si basa sui valori politico sociali, e non finanziari della complementarietà, reciprocità, cooperazione e solidarietà, con l’obiettivo di sfruttare le risorse dei diversi paesi per attenuare gli squilibri esistenti.

Dall’introduzione nel 2009 del sistema Bitcoin, l’uso delle criptomonete si è esteso enormemente su scala globale anche grazie alla sicurezza delle transazioni e alla facilità di utilizzo .

Il PETRO si inserisce infatti in una tendenza globale che nel 2017 ha visto Russia e Cina grandi protagoniste nella costruzione di una architettura di pagamenti, investimenti e scambi commerciali a livello regionale, verso un sistema multimonetario basato sulla triade petrolio/yuan/oro. Anche l’Iran sta progettando l’adozione di una moneta digitale realizzata con la tecnologia Blockchain . In generale, la diffusione su scala globale di monete sganciate dal dollaro come mezzi di scambio accelera la decadenza del dollaro come divisa egemonica per il commercio estero e come mezzo per applicare sanzioni e blocchi finanziari ai danni dei paesi avversari.

Ciò che qui ci interessa è proprio la sperimentazione di progetti di politica monetaria a chiaro connotato antimperialista e di protezionismo solidale di classe, che si realizzano all’interno dei processi di transizione reali perché possibili, come quello dell’ALBA. Una transizione nell’Area Euromediterranea acquisirebbe necessariamente caratteristiche molto differenti perché differenti sono le condizioni; ma uguale sarebbe la necessità di adottare anche strumenti di politica monetaria, monete di compensazione per gli scambi commerciali, per evitare di essere “strozzati” dal grande capitale finanziario.

L’esperienza incoraggiante dell’uso del SUCRE indica quanto accertato dall’iniziativa e segna la strada sulla quale il piano per la creazione dell’Ufficio Centrale Bolivariano dei Pagamenti Internazionali (in lingua originale OCBPI ) permette di avanzare.

Un protezionismo solidale per una politica industriale di recupero delle capacità al servizio del popolo

Il problema rappresentato dall’Euro e dall’architettura finanziaria dell’Eurozona, impostata sul mantenimento dell’aggiustamento perenne, viene aggravato dall’assenza di una politica di impulso espansivo dell’economia, impensabile con i trattati comunitari vigenti, che interpretano quasi tutta la politica espansiva come interventismo nefasto del mercato nel paradiso idilliaco dell’assegnazione privata delle risorse.

A livello internazionale sempre più si affermano politiche protezionistiche e ideologie nazionaliste insieme al generalizzato e auspicato aumento della spesa militare.

La “guerra dei dazi”, divenuta esplicita a inizio 2018 e che fa esplodere il vertice G7 del Canada di giugno 2018, manifesta chiaramente questo aumento della tensione internazionale e della tendenza al protezionismo.

I paesi della periferia Europea hanno bisogno di un sistema monetario e finanziario alternativo all’Euro e alla globalizzazione. Però non si può concepire un sistema del genere in un mercato unico neoliberista come è stato concepito nei Trattati Europei. Le regole di funzionamento di tale mercato impediscono una soluzione che dia stabilità al processo di accumulazione, per lo meno nel senso in cui si concepisce la “stabilità” nel capitalismo, ossia un periodo relativamente lungo di crescita in cui si incatenano cicli successivi di espansione e contrazione economica.

Quindi è la stessa pratica contro la finanza dell’impero che dimostra che proporre una nuova moneta per paesi con strutture produttive più o meno simili sarebbe l’unica alternativa possibile, che permetterebbe sia di mantenere un margine di negoziazione con le istituzioni comunitarie e con la Banca Centrale Europea, che di stabilire un blocco politico-industriale propenso ad un modello di accumulazione favorevole per i lavoratori. La nuova moneta comune può essere negoziata sia all’interno che all’esterno della UE; forse, così, ci sarà una gestione ordinata della transizione produttiva, la rottura della UE, l’uscita monetaria con una equilibrata gestione dei flussi finanziari.

Cambiare la moneta nei Paesi con un forte squilibrio fiscale porta implicitamente ad una svalutazione quasi immediata. Per questo, il cambio della moneta richiede che allo stesso tempo, su questo non ci devono essere dilazioni, si rinomini il debito esterno ed interno con la nuova moneta SUCRE MEDITERRANEO, al tasso di cambio che i governi considerano più appropriato. Ovviamente questo rappresenta un’altra fonte di tensione politica con i creditori in particolare con quelli interni alla stessa UE, dato che gli agenti finanziari Europei sono i proprietari della maggior parte del debito della periferia mediterranea.

La nuova moneta comune o SUCRE MEDITERRANEO, si potrebbe negoziare sia dentro che fuori dell’Unione Europea, cosa che di per sé permetterebbe una gestione più ordinata della transizione produttiva.

L’uscita dall’Euro dovrebbe svilupparsi in modo concertato perché tra i paesi della periferia mediterranea; a nostro parere esistono quattro momenti intimamente vincolati, senza dei quali il processo potrebbe risultare un fallimento. Sono i seguenti:

• stabilire un “simbolo monetario”, anche inizialmente virtuale – cripto moneta- moneta di conto e compensativa, comune all’Area Euromediterranea;

• ridenominazione del debito nella nuova moneta dell’area periferica al tipo di cambio ufficiale che verrà stabilito;

• rifiuto di una parte del debito e esigenza di una rinegoziazione dello stesso o in casi di forte dipendenza dal sistema bancario un azzeramento totale;

• nazionalizzazione delle banche e regolamentazione stretta (compresa la proibizione temporale) della fuoriuscita dei capitali.

L’idea di abbandonare la UE e uscire dall’Euro deve prevedere una fase di passaggio con l’utilizzo di una “moneta della transizione nazionale” (una sorta di ITALSUCRE Mediterraneo, richiamandosi in qualche modo anche simbolicamente nel nome alla moneta virtuale di compensazione SUCRE dell’Alleanza ALBA di Nuestra America); per poter essere considerata un’alternativa per i paesi della periferia mediterranea, bisogna evitare la debolezza di tale moneta di fronte al capitale finanziario globale, permettendo così processi di regolazione efficaci del ciclo e del cambio strutturale di questi paesi.

Il cambio della moneta non porta in sé nessun tipo di avanzamento nella correlazione delle forze a favore dei lavoratori; anzi, è il contrario. Per tale ragione, il cambio di moneta necessita allo stesso tempo – così non ci saranno ritardi – della ridenominazione del debito estero e interno nella nuova moneta, con il tasso di cambio che i governi considerano più appropriato e del ripudio di una parte sostanziale del debito, infliggendo così un costo elevato alla classe dei rentisti.

Con un’impostazione e con principi di classe, va rilanciato e rafforzato il progetto che avevamo iniziato già dieci anni fa: quello dell’ALBA Euromediterranea. Possiamo semplificarlo riferendoci a un’area di interessi di classe e di processo rivoluzionario Euromediterraneo, che guarda con grande simpatia politica e di alternativa economico-sociale in chiave antimperialista all’ALBA dell’America Latina. Un processo politico di integrazione regionale in cui, pur con tutti i limiti, si è creata la Banca dell’ALBA, la Banca del Sur, la Banca dell’ALBA, si sono messe in campo le Misiones, mezzi di comunicazioni alternativi come Telesur, si è creato il SUCRE, una moneta virtuale di compensazione per gli scambi interni, potenzialmente alternativa al dollaro.

È evidente che l’uso di monete sganciate dai circuiti finanziari egemonizzati dai poli imperialisti rappresenti un importante segnale di rottura – e infatti non manca una certa isteria da parte delle grandi potenze, che pongono in essere una forma sottile ma non meno pervasiva di terrorismo tramite continui attacchi mediatici – nonché un passaggio importante per rompere l’isolamento che le sanzioni favoriscono e trovare canali alternativi, aggirare i blocchi e lavorare alla costruzione di una nuova architettura finanziaria.

Si tratta realmente di un passo importante in direzione della costruzione di un nuovo paradigma per il commercio internazionale al di fuori dei circuiti finanziari egemonizzati dalle grandi potenze imperialiste; la sfida è grande tanto quanto la risposta che è possibile attendersi dai “giganti” minacciati nella loro supremazia.

Riteniamo che l’Area Euromediterranea sia una opportunità per pensare un nuovo spazio geopolitico di influenza mondiale, con un progetto di rottura con il capitale globale, sia per ragioni politiche che economiche.

Costruire una area monetaria tra paesi con configurazioni produttive strutturali più omogenee è una alternativa possibile per raggiungere l’autonomia politica richiesta da un progetto di costruzione di democrazia partecipativa a carattere socialista, anche in una fase di transizione possibile.

(relazione al convegno di presentazione di “Pigs. La vendetta dei maiali”)

Un commento al libro “PIGS, la vendetta dei maiali. Per un programma di alternativa di sistema: uscire dalla UE e dall’Euro, costruire l’Area Euromediterranea” di Luciano Vasapollo con Joaquin Arriola e Rita Martufi presentato domenica a Roma al convegno di Eurostop.

Il testo attualizza una precedente pubblicazione, “Pigs, il risveglio dei maiali”, che poneva in essere la trattazione dell’unificazione economica e monetaria dei paesi periferici della UE, appunto i “Pigs” (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna), proponendo una nuova prospettiva, quella della costruzione dell’Area Euromediterranea. L’elaborazione originaria degli autori è stata aggiornata ed integrata con le osservazioni degli attivisti del coordinamento nazionale di Eurostop, venendo così a formare uno scritto che è il prodotto del lavoro di un “intellettuale collettivo”.

Area Euromeditteranea non è forse la definizione più corretta, infatti a ben leggere nel testo si parla di area Euro-Afro-Mediterranea. Una costruzione che non guarda solo al sud dell’Europa e ai paesi “maiali”, come definiti dalla UE perché, “grassi ed ingordi”, non hanno saputo controllare i conti pubblici sperperando danaro (nda: sulla formazione del debito italiano e non solo e la narrazione ipocrita che lo accompagna occorrerebbe una trattazione ad hoc che per motivi evidenti non può essere affrontata in questo breve articolo, si tenga presente che un così alto debito pubblico è il prodotto da un atto politico – volontaristico e consapevole delle conseguenze – che preparava l’Italia all’entrata nell’Euro: ossia la divisione del ministero del Tesoro  da Banca d’Italia, nel 1981, producendo la sussunzione dello Stato nella finanza e preparando il terreno del ricatto politico delle riforme in nome della stabilità di bilancio), ma anche ai paesi del nord Africa che si affacciano sul Mar Mediterraneo.

Non da oggi, e non solo tra intellettuali marxisti, è in corso un dibattito sull’opportunità per un’area formata da paesi a struttura economico-sociale simile di realizzare l’”abbandono” o il “distacco” (“delinking”, secondo Samir Amin) da quella che Hosea Jaffe nel 1994 ha chiamato “l’azienda mondo”, identificando con questa un sistema capitalista internazionale fondato su istituzioni e organismi come Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, BCE, WTO ecc.)

[…] L’attenzione che oggi si registra intorno alla nostra proposta di costruire un’area mediterranea dipende proprio dal fatto che si tratta di una proposta politica che si relaziona con l’autodeterminazione di quei popoli che sono direttamente colpiti dal rafforzamento dell’Unione Europea […].

La proposta dell’ALBA o Area Euro-Afro-Mediterranea (AR.E.A Medit) parte anche dalla considerazione che è pura retorica fuori contesto storico e socio-economico parlare in unità della classe operaia europea. Oggi il proletario italiano, quello portoghese, lo spagnolo, il greco ed anche il tunisino, l’algerino, l’egiziano e il marocchino, hanno interessi e condizioni di vita completamente differenti da quelle del lavoratore tedesco, svedese olandese, belga, britannico, che guadagnano un minimo salariale al mese relativamente molto più alto dei lavoratori dei PIIGS, e possono vantare condizioni di vita estremamente più stabili e di benessere completamente differenti dalle nostre. Inoltre, gli europei mediterranei, come pure quelli dell’est europeo, sono considerati “proletari migranti” e cioè concorrenti che possono danneggiare o minimizzare il loro standard di vita. (nda: chi stesse già partendo con accuse di nazionalismo, si fermi un attimo e continui a leggere l’articolo fino alla fine)

Come si evince dall’estratto, una proposta contestualizzata a pieno nel quadro storico attuale, che guarda e affonda le mani nelle contraddizioni che ci troviamo di fronte, non rincuorandosi nella retorica politica ormai stantia e non reale legata alla costruzione dell’Unione Europea come luogo dei popoli o teorici recuperi democratici di una struttura di “governance”, quella della UE, che invece sta funzionando per come è stata concepita. Le tesi sostenute non sono campate per aria, ma affondano a pieno nella materialità storica in cui ci troviamo a vivere. Prima fra tutte la necessità della rottura con la “gabbia della UE”, una struttura fondata sui trattati che ne rappresentano l’architrave e l’essenza stessa, a partire da quelli di Roma del ’57 fino ad arrivare al famigerato “Fiscal Compact”. Un architrave, quello dei trattati, che ha prodotto un sistema di governo post-democratico negli stati membri con la relativa espulsione della sovranità democratica e popolare, la distruzione dello stato sociale, la privatizzazione dei servizi pubblici, la precarizzazione e flessibilizzazione del lavoro, distruggendo quel diritto al lavoro che crea una “vita degna per sé e per la propria famiglia”, come recitato dalla nostra stessa Costituzione. I trattati, infatti, sono completamente incompatibili con essa, soprattutto con i principi fondamentali che garantiscono stato sociale, salute, tutela dell’ambiente e diritto al lavoro. Da qui si percepisce la grande volontà posta in campo negli ultimi anni per cambiarla, per fondarla sulla libera concorrenza di mercato, anche se in realtà è già stata minata alla radice con la famosa introduzione del pareggio di bilancio, articolo 81. L’attuale formulazione dell’articolo, difatti, impedisce di realizzare politiche economiche espansive, rivolte al bene pubblico, al sociale, fuori dall’egida del profitto e del pareggio di bilancio; cosa di cui incominciamo a vedere le conseguenze con la caduta del ponte Morandi a Genova. Il testo affronta la problematica dell’”Europa a due velocità”, “centro- periferia” che sta ridefinendo i rapporti tra i paesi del centro a guida franco-tedesca e quelli del sud, relegando quest’ultimi ad essere in ultima istanza fornitori di manodopera e servizi perlopiù turistici e di ristorazione.

Un ruolo definito dall’ortodossia neoliberale del centro nei confronti dei PIGS – attraverso la logica del credito-debito che rafforza la sudditanza dei secondi nei confronti dei primi – che dalle tesi del libro incomincia ad essere scalzata con una proposta che guarda al “qui ed ora” dello spazio nazionale (unico spazio nel quale le classi lavoratrici, gli sfruttati, ecc., possono influire nei rapporti di forza in essere, come hanno dimostrato il referendum del 4 dicembre 2016 e le ultime elezioni politiche) e che non si tira indietro di fronte alla non veridicità della sincronicità storica che determinati eventi alternativi possano accadere simultaneamente e con le stesse caratteristiche in differenti paesi, determinando per tutti le medesime condizioni. Ma immediatamente e contestualmente rivolto ad una proposta internazionalista, sia nelle relazioni tra le classi di sfruttati degli altri paesi, sia in relazione alle “bordate” finanziarie e monetarie internazionali di cui come singolo paese si sarebbe bersaglio e da cui difficilmente se ne potrebbe uscirebbe vincitori.

“È utile ribadire che la questione dell’uscita dall’euro e dall’Unione Europea non è da noi concepita in chiave nazionalista, cioè di generica, impropria, inadeguata e dannosa sovranità nazionale ma ha una dimensione immediatamente di classe perché è un passaggio, se storicamente affrontato da una soggettività politica consapevole e capace di svolgervi una funzione, in grado di porre le basi per una inversione dei rapporti di forza lavoro-capitale nel polo imperialista europeo […]

La creazione dell’euro è stata accompagnata dall’intensificazione del mercato unico e dalla divisione europea del lavoro, andando verso una formazione sociale su scala europea – attualmente, un quarto del PIL dei paesi dell’Europolo viene valutata per mezzo del mercato comune e la specializzazione settoriale intraeuropea si trova in una fase di deindustrializzazione accelerata della periferia dell’area. Nonostante questo processo non sia ancora stato completato, la frammentazione monetaria dell’Euro-zona è una possibilità reale, ciò che non lo è, è tornare a monete nazionali che lungi dal rappresentare una sovranità (monetaria) recuperata, non potrebbero non essere che simboli monetari di territori politicamente ed economicamente frammentati e dipendenti dall’area di influenza del capitale europeo. Se i paesi della periferia europea vogliono riprendere il controllo sull’attività produttiva, lo potranno fare solo in modo congiunto e mediante un processo di rottura con il modello delle finanze private e con lo spazio monetario asimmetrico di adesso. L’uscita dall’euro è una opzione politica più che economica e può essere un passo verso la soluzione dei gravi squilibri strutturali delle economie periferiche, che non sono squilibri finanziari, ma produttivi: una base industriale in declino, uno spreco enorme di forza lavoro, una concentrazione scandalosa della ricchezza e del patrimonio. Però come sfida politica generale, supera il grado di autonomia decisionale di qualsiasi paese danneggiato dalla politica che soggiace al patto originario dell’euro […]

Uscire dall’euro proponendo una nuova moneta per Paesi con strutture produttive più o meno simili sarebbe l’unica alternativa realizzabile, che permetterebbe sia di mantenere un margine di negoziazione con le istituzioni comunitarie e con la Banca Centrale Europea sia di creare un nuovo blocco politico istituzionale capace di realizzare un modello di accumulazione favorevole ai lavoratori”

La globalizzazione è ormai finita e ci troviamo in un contesto geopolitico internazionale che ritorna alla “polarizzazione”, nella quale si acuisce lo scontro fra i differenti imperialismi. Ognuno sta giocando la sua partita per accaparrarsi una fetta dell’attuale mondo, posto in cui “il vecchio muore ma il nuovo ancora non può nascere”, ed in tale scontro si va affermando quello tra Stati Uniti e Cina. Scontro imperialistico che non trova più un centro geografico come quello otto-novecentesco, ma che come riportano gli autori si da con le seguenti caratteristiche.

“Il cambiamento più grande nel XXI secolo è proprio la globalizzazione neoliberista. Che è anche un sottoprodotto del dominio anglosassone, in un contesto in cui la mondializzazione è proprio la globalizzazione del neoliberismo  della cultura anglosassone, inalterata dai limiti che strette frontiere nazionali impongono alla circolazione di beni e persone e in cui la cultura e la lingua globale, l’inglese, funzionano come un procedimento per estrarre ricchezza immateriale – conoscenza – dal resto del Pianeta; e la finanziarizzazione e il dominio del dollaro nelle transazioni e nelle riserve internazionali attirano rendite finanziarie a beneficio del centro del dominio globale.

[…] a differenza delle rivalità intercapitalistiche precedenti, ora la disputa non è gestita dalle strette frontiere nazionali dei principali competitori; la disputa ora non è per imporre l’uno o l’altro progetto imperiale con un centro geografico delimitato da confini dentro dei quali si accede alla cittadinanza dell’impero e al di fuori no. Il nuovo scenario ci porta indietro, in un certo qual modo, al concetto di cittadinanza dell’antica Roma: ovunque ci sia un cittadino romano, sia presente l’impero”. Per tale ragione, ora, l’area di influenza della Cina è, prima di tutto ed al di fuori del territorio cinese, la comunità cinese sparsa nel mondo. Questo nuovo scenario, di rivalità comunitarie più che nazionali, è stata ben intesa da una parte della classe politica dei paesi anglosassoni”.

Da qui, ulteriormente, la necessità di creare un’area “Euro-Afro-Mediterranea”, che sia ben riconoscibile e che punti a contrastare ed invertire le tendenze imperialistiche, nonché scalzare le presenti e nuove mire neo-coloniali che producono migliaia e migliaia di immigrati ed emigrati, affermando un progetto nel quale l’autodeterminazione dei popoli è la base per un’alleanza internazionalista che non ricada o scambi l’internazionalismo nel “globalismo borghese”, fatto di genti apolidi che se la prendono sistematicamente con il loro vicino più povero come causa di tutti mali.

Ci troviamo di fronte ad un progetto politico che propone un percorso di costruzione reale, ben piantato nel XXI secolo e soprattutto “affermativo”, perché finalmente ci troviamo di fronte ad una proposta. Sicuramente non esauribile in un solo testo, conscia dei problemi che pone nel progetto, che ha di fronte a sé delle sfide enormi, ma che finalmente propone e che non si fa perimetrare nello spazio politico del campo avversario, limitandosi a dire “No”, ad essere solo “Contro” o “Anti” qualcosa. Questa è l’intuizione fondamentale del libro, ovviamente pariteticamente intrecciata dal rigore scientifico della proposta stessa, analisi e dati.  Lo smarcamento, nell’affermazione del progetto, per la definizione di un campo differente da quello del nemico. Il blocco sociale, se lo vogliamo definire così, a cui dobbiamo guardare e che fino ad ora solo elettoralmente ha espresso la propria rabbia per le condizioni di vita in cui si trova a dover galleggiare, ha scaricato definitivamente nel passato le élite neoliberali di centro-destra ma anche ed egualmente quelle euro-riformiste ed eurocentriche della sinistra neoliberale, ma indirettamente ha dato un segnale che non può non essere colto da tutti quei movimenti politici e sociali antagonisti che si adoperano per un cambiamento: “non ci bastano i no, perché con quelli non si mangia, occorrono progetti e proposte”.

Starà a quelli che si vogliono adoperare per un reale cambiamento mostrargli che ciò che si propone è valevole della loro attenzione perché prende realmente in considerazioni le reali condizioni di vita in cui si trovano e al contempo smontare l’ideologia della paura in cui annegano per dirgli che un percorso alternativo si può fare, non è indolore, certo, ma non è la fine della Storia come ci vogliono raccontare e che fuori dalla gabbia della Ue non c’è il nulla dello spazio siderale. La proposta Euro-Afro-Mediterranea va in questa direzione e lo fa considerando l’aspetto economico-produttivo, quello monetario e quello geopolitico, appunto decostruendo lo spauracchio del salto nel buio che quotidianamente ci viene propinato. Tra le sfide e le innumerevoli difficoltà che si trovano di fronte ad un progetto di questo tipo vi è anche quella ideologico-culturale e non solo economico-strutturale. Occorre anche da questo punto di vista trovare quel denominatore comune che unisca popolazioni che hanno storia e cultura profondamente ed innegabilmente differenti. Sottopelle al testo si percepisce che la risposta sta nel “mare nostrum” e nel prodotto del lavoro di un “intellettuale collettivo”, quindi chi scrive è convinto che questo non sia un testo con un “The End” ma che termini con un “Continua…”.

*Eurostop – Parma

Non abbiamo bisogno  di aiuti umanitari. Ciò che chiediamo è che gli Stati Uniti, il Canada e l'Unione europea revochino il blocco finanziario e commerciale contro il popolo venezuelano; che si abroghino le misure coercitive unilaterali e illegali. Che finisca  l'attacco alla nostra moneta. Che le aziende farmaceutiche transnazionali residenti in Venezuela, nessuna delle quali ha chiuso i battenti, forniscano dall'interno del territorio i farmaci di cui i venezuelani hanno bisogno.
Il principe giordano, Alto Commissario uscente del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, che deve sapere molto sulla monarchia ma poco sulla democrazia, ha fatto innumerevoli tentativi per giustificare un intervento umanitario nel nostro paese. L'ultima cosa era di consegnare, senza il mandato dei paesi membri del Consiglio, un rapporto che dal titolo "Violazione dei diritti umani in Venezuela" mostra parzialità.  
Questa relazione, priva di qualsiasi rigore, è servita a presentare un progetto di risoluzione alla 39a sessione del Consiglio dei diritti umani che cerca di gettare le basi per un intervento "umanitario" in Venezuela, la stessa procedura seguita in Libia, attualmente distrutta e in conflitto armato.
È irresponsabile affermare che c'è una crisi umanitaria in un paese come il Venezuela che, nonostante le aggressioni economiche, ha costruito più di 2 milioni di case negli ultimi 5 anni; sta sviluppando un piano di vaccinazione con più di 11 milioni di dosi applicate. In cui 3 milioni di bambini godono di piani di vacanza e più di 8 inizieranno l'anno scolastico. Che nessuna scuola o università è stata chiusa. In un paese in cui il cibo sovvenzionato è distribuito a 6 milioni di famiglie.
È contraddittorio descrivere come crisi umanitaria un paese il cui tasso di disoccupazione è inferiore al 6%, le sue esportazioni sono aumentate del 17% tra il 2016 e il 2017 e, secondo l'ECLAC, continua ad essere in cima alla lista dei paesi meno disuguali della regione.
I 47 paesi membri del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite che votano a favore di questo progetto di risoluzione avranno la responsabilità storica di un eventuale intervento "umanitario" in Venezuela, che è la stessa cosa che dire, violare la pace di un intero continente.


Gran parte della generazione nata nel primo decennio successivo alla fine del secondo conflitto mondiale, non può non trovare nel ricordo della morte di Aretha Franklin la storia e la forte e potente presenza di movimenti etici nella musica e nello spettacolo.

Si tratta di movimenti nei quali agivano con forza, determinazione e potenza comunicativa: band musicali e cantanti-cantautori-cantautrici, e contemporaneamente anche nel campo del cinema, del teatro, si è avuto e prodotto tutto ciò che sono stati capaci di esprimere, raffigurare o rappresentare in quella “torsione” etica, culturale e sociale che si esprimeva con materiali o strumenti che quella fase sociale, storica e contestativa, metteva a loro disposizione, uso e consumo.

In questo variopinto mondo caratterizzato dalla presenza di movimenti con caratteristiche “globali” (anticipandone – forse – perfino i contenuti “merceologici-mercantili”) spiccavano varie soggettività e personaggi differenti tra di loro ma efficaci – in parte ma non solo – musicalmente prima e “socialmente” poi.

In ciò ha spiccato, tra gli altri, il ruolo e la funzione che veniva espressa da personaggi come Aretha Franklin, la quale ebbe anche il coraggio di esprimersi – prima con la sua straordinaria capacità e bravura vocale e musicale, poi con scelte di natura etico-sociale che l’accompagnava prendendo spunto dai duri conflitti presenti nella società statunitense, in particolare le rivolte (i riot) dei “ghetti” neri contro la ferocia razzista delle autorità, della polizia e di pezzi di società statunitensi, le quali intervenivano sempre con maggiore violenza e brutalità contro i neri (i nigger) nei ghetti in rivolta.

E’ il caso della sua bellissima canzone “Respect”, nella quale invocava e reclamava rispetto per la gente di “colore”, per la sua gente.

La soggettività di Aretha Franklin – non solo la sua – nel campo musicale é coincisa indubbiamento con quel sommovimento sociale antirazzista, etico, morale e politico.

Con ciò mi convinco sempre più come la scomparsa di Aretha Franklin, oltre a provocare tristezza e dolore ai molti appassionati di musica e di vita sociale, può tornare anche utile, o quantomeno fornire l’occasione per una migliore lettura, di cosa ha significato e quale sia stata l’influenza sociale, politica e culturale che la presenza di simili personaggi, culture e movimenti nati nelle contraddizioni – soprattutto “razziali” – che riempivano allora, e ancora oggi, intere parti e settori delle società statunitensi o europee – ebbero nella critica verso forme razziste e di rifiuto di un’integrazione sociale malata alla base delle rivolte (riots) che riguardavano allora gran parte del territorio metropolitano statunitense.

In ciò può anche tornare utile una comparazione tra gli sviluppi e le pratiche che alcune presenze ebbero nello svolgere o sviluppare funzioni, ruoli con caratteristiche alternative e antagoniste all’omologazione passiva del senso comune(normalizzazione delle coscienze e dei saperi critici)di molte generazioni schiacciate da un dominio economico, culturale, repressivo e poliziesco. Una funzione oggi descritta come governamentalismo!

Fare il punto su questo usando come “lente di lettura” l’eredità che una artista come Aretha Franklin – non solo lei – ha lasciato come riflessione, insegnamento e testimonianza sociale ed etica è un’orizzonte tutto da indagare e riscoprire.

Tantissimi gruppi, cantanti/e diedero corpo materialità e sonorità a quel percorso tracciato dall‘esperienza del movimento afroamericano di protesta politica e sociale.

Movimento poi caratterizzato oltre che da esperienze politiche – come il Black Panther Party – anche da prodotti musicali e culturali di respiro ampio e strategico.

A tale movimento parteciparono in vario modo, titolo e partecipazione esponenti della cultura statunitense. Aretha Franklin, dedicò una sua canzone alla vicenda del carcere di Attica nel quale vennero uccise decine di prigionieri, sullo stesso tema Archie Sheep fece “Attica Blues”. Ma la stessa Aretha Franklin, coraggiosamente, contro tutte le pressioni ricevute dalle istituzioni statunitensi, si offrì di pagare di tasca sua la cauzione per la liberazione di Angela Davis militante ed esponente nera dell’American Comunist Party. 1

Le presenze di queste personalità – da Aretha Franklin a LeRoi Jones (Amiri Baraka) poeta e scrittore di ampio successo – furono caratterizzate da una forte componente di critica sociale e politica al razzismo feroce imperante negli USA di allora e che sta riprendendo vigore e potere con l’avvento di Donald Trump.

In questo la sua scomparsa può quindi ben rappresentare – oltre all’apparire di orizzonti con segnali molto ambigui, diversi, pericolosi e degradanti dal punto di vista etico, morale o sociale – un esaurimento di quel filone culturale della black music e del black soul che monopolizzò l’intero ambiente musicale dagli anni ‘60/’70 in poi.

In quella fase storica, culturale musicale e sociale, caratterizzata da presenze femminili, non si può tacere del ruolo che ebbe anche un’altra grande artista come Nina Simone, la quale fu probabilmente l’esponente con caratteristiche più politiche del movimento del black power e del black soul jazz.

Per una colllocazione migliore e più specifica del ruolo e della funzione di Aretha Franklin e di altri rappresentanti di quella cultura musicale e non solo, dobbiamo riferirci sicuramente anche a specifici fenomeni che caratterizzarono quella stagione con caratteristiche molto politicizzate, sociali e antirazziste.

Su tutte agì sicuramente il movimento politico che prese il suo nome da un animale che meglio poteva rappresentarne la sua origine cioè: la “pantera” (Black Panthers Party). Questa esperienza (principalmente e in pratica politica e sociale) agì per costruire un ipotetico, per quanto difficile e illusorio “Potere Nero” (Black Power) ma mise in evidenza anche un “orgoglio nero” il quale fu presente negli Stati Uniti dalla seconda metà degli anni ’60 fino alla metà degli anni ’80, definendo tra altre cose la propria identità musicale intorno a due personaggi come James Brown e Nina Simone!

«Say it loud, I’m black and I’m proud» (“Dillo forte, sono nero e sono orgoglioso”) questo è il passaggio una strofa di una canzone di James Brown, molto famosa e di ampia diffusione, che presto divenne l’inno per il“Black Power Movement”.

Il Black Power ha inciso profondamente la società statunitense, sia a livello politico sia nella dimensione socio-culturale. La musica occupa un posto di rilievo e figure come Nina Simone e James Brown ne sono senza dubbio un’ottima testimonianza.

Questi movimenti sono stati tutti caratterizzati dalla originaria musica “gospel” tipica espressione di critica sociale che gli “schiavi” addetti alla raccolta del cotone usavano per esprimere le loro critiche agli schiavisti e al potere allora dominante. In questo territorio ebbe poi vita e sviluppo l’intera dinamica culturale e musicale nella quale, ebbe grande popolarità anche quel tipo di blues d’inizio secolo. Trasformandosi poi con una sua forma secolarizzata in Rhythm and blues (chiamata anche Soul music) in spiccarono ulteriori interpreti e personaggi non solo femminili come Aretha Franklin o Nina Simone oppure Diana Ross; Dionne Warwich oltre a personaggi come Ben E. King; Sam Cooke; Otis Redding.

Nei nostri tempi la forma espressiva musicale sia critica sia di denuncia sociale ha avuto una sua radicale trasformazione ed ampia diffusione con il rap! Fenomeno e pratica musicale nella quale la maggiore espressione comunicativa proviene direttamente dai precedenti movimenti di black music e soul.

Tra i neri afroamericani la musica Soul con canzoni intelligenti e filosofiche rivoluzionò i messaggi in essa contenuti dei quali Aretha Franklin ne fu interprete e propagandista. Ecco perché la sua “scomparsa” può caratterizzare anche la perdita di “innocenza” che gran parte del popolo statunitense crede ancora di conservare.

L’importanza che tutta questa vicenda presenta sia nella scena sociale e culturale sia politica negli USA è data anche dal fatto nella lista dei 50 artisti R&B più potenti di tutti i tempi presente nel panorama comunicativo, la quasi totalità dei componeti di questa lista è di origine …nera!! 2

Aggiungiamo a questo, solo per testimoniarne l’eredità e la continuità espressiva, il fenomeno rappers, o della musica trasgressiva di denuncia sociale variamente raffigurata, ha tra i suoi promotori o interpreti principali personalità come Marvin Gaye; James Brown; George Clinton (ideatore e promotore del Funk con i suoi Funkadelic).

Nei campi di raccolta del cotone (la principale attività schiavistica) era consuetudine intonare i cosidetti field holder (grido dei campi), spesso utili poiché usati per comunicare tra di loro, a volte anche con forme e contenuti codificati per nasconderne il contenuto ai padroni schiavisti!

Ciò si modificò convertendosi in “religiosità” seguendo il periodo di grande fervore religioso che coinvolse tutto il paese. In quelle occasioni erano cantati inni scritti principalmente dai pastori protestanti (infatti, il padre di Aretha era un pastore di religione battista) e fu allora che le persone di colore iniziarono a cantare questi inni alla loro maniera dando origine ai cosidetti spirituals.

Fu da queste forme musicali che nacquero il blues, il jazz e il gospel.

Aretha Franklin e altri esponenti musicali afroamericani hanno attinto a piene mani da questo retroterra e lo lo abbiamo potuto verificare ampiamente. Aretha ci mancherà.

L’America Latina è sotto attacco, avvolta in una fitta nebbia di false informazioni e menzogne costruite dai media della civiltà occidentale, che demonizzano i regimi popolari distorcendo o censurando i colpi di stato e gli stermini di cui sono vittima, giustificando interventi militari e aggressioni economiche da parte di Stati Uniti e Unione Europea.

In un contesto, quindi, in cui le conquiste politiche e sociali sudamericane sono a rischio, il libro “La resistenza eroica della rivoluzione bolivariana”, del professore Luciano Vasapollo, tenta di gettare un raggio di luce nell’oscurità causata dal fango gettato dai mass media, contestualizzando storicamente premesse e risvolti della Rivoluzione Bolivariana.

 

Come ben ricorda l’Ambasciatore Venezuelano Julián Isaías Rodríguez Díaz nella prefazione del testo, il proposito del libro di Vasapollo è quello di diffondere la storia, troppo spesso distorta e tuttora mal raccontata, dei processi bolivariano, cubano, e boliviano con il processo d’integrazione dell’ “Alianza bolivariana para América Latina”, in opposizione ai dettami quasi dittatoriali di liberalizzazione commerciale imposti dagli Stati Uniti in modo da favorire in primo luogo i propri interessi.

Isaías sostiene sottolinea il merito della rivoluzione chavista nell’invertire il trend per il quale le ricchezze del paese finivano nelle tasche dei paesi stranieri lasciando invece versare la maggioranza della propria popolazione nella povertà assoluta e nell’analfabetismo.

 

La rivoluzione di Chávez in Venezuela si è andata a innestare in un processo di trasformazione socialista concretizzatasi nell’ALBA, per ispirazione dell’idea di Nuestra America di Josè Marti, seguace del pensiero di Simon Bolivar, eroe dell’indipendenza dell’America Latina dalle catene straniere.

Con la morte di Chavez, però, il 5 marzo del 2013, racconta Isaias, sono ricominciati gli attacchi materiali ed economici da parte di Stati Uniti, paesi europei e oligarchi, attraverso atti terroristici e sanzioni internazionali attuate con l’intento di destabilizzare i governi legittimi come nel caso di quello di Maduro, successore di Chavez in Venezuela.

 

Il libro di Vasapollo, come indica anche Isaias, ricostruisce e contestualizza passato, presente e futuro della Rivoluzione Bolivariana, movimento di emancipazione di milioni di persone soggiogate dai soffocanti interessi nord-americani, europei e oligarchici, per cercare di fugare il miope eurocentrismo che avvolge l’interpretazione delle questioni latino americane semplificandole e aggregandole senza tenere conto delle unicità delle tante nazioni che compongono un intero continente che non è la banale appendice, o il cortile di casa, statunitense.

 

Lo stesso presidente Nicolas Maduro ha espresso il proprio pensiero riguardo la pubblicazione del libro, ringraziando Luciano Vasapollo e i suoi collaboratori per il loro appoggio al processo rivoluzionario bolivariano.

Forgiatisi in un continente vessato prima dal colonialismo europeo e poi dall’imperialismo americano, due secoli dividono Simon Bolivar, el Libertador, e Josè Marti da uomini come Chavez e Maduro, ma i sentimenti che li animano non sono diversi: consegnare finalmente al loro popolo la democrazia, la libertà e le redini del proprio destino.

http://www.farodiroma.it/venezuela-chavez-vive-nel-suo-popolo-indomito-maduro-ringrazia-vasapollo/

 

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